“Vietato farsi curare”: cosa succede alle afghane dopo il terremoto

Non solo isolate, zittite, cancellate, escluse dall'istruzione. Le donne afghane vengono anche lasciate morire tra le macerie del terremoto di magnitudo 6.2 che ha devastato l'Afghanistan dell'Est, causando più di 1.400 morti il 1° settembre. Alle donne è infatti vietato farsi curare da medici uomini e la carenza di personale femminile ha lasciato molte di loro senza le cure adeguate, aggravando la loro già profonda vulnerabilità e mettendo a repentaglio la loro vita. È questa l'emergenza nell'emergenza che colpisce le afghane in un momento in cui le Nazioni Unite fanno sapere che il sisma potrebbe avere impatto su "centinaia di migliaia" di persone e che potrebbe esserci una crescita "esponenziale" delle vittime. “La situazione è davvero disastrosa", racconta a Sky TG24 Insider Luca Lo Presti, presidente di Pangea Onlus, che partirà per l'Afghanistan tra pochi giorni, appena gli verrà rilasciato il visto. "La terribile verità è che le donne vengono lasciate sotto le macerie. Oppure, anche se vengono trovate, nessuno le cura. Perché gli uomini non possono toccarle: i talebani, tornati al comando il 15 agosto 2021, vietano alle donne di farsi curare da medici maschi. Bambine comprese. Di fatto, quello che ha imposto il regime è un apartheid di genere: “Le donne erano in casa durante il sisma perché non possono uscire. E se sono sopravvissute rischiano comunque di morire perché non ricevono assistenza: è agghiacciante”. Lo choc delle donne dopo il ritorno dei talebani Sebbene la maggior parte delle vittime del sisma sia rappresentato da donne e bambini, il primario dell'ospedale nella provincia di Kunar, il giorno dopo il terremoto, ha affermato che erano ricoverate solo 13 donne contro 67 uomini. Il sito della BBC riporta che una donna incinta ha avuto un aborto spontaneo perché dopo lo choc del sisma non ha ricevuto cure mediche. Si può parlare di “omissione di soccorso” per un intero genere. Dopo il ritorno dei talebani la condizione delle donne e delle bambine è precipitata. Pangea offre ad alcune di loro interventi di assistenza psicologica: incontri o sostegno telefonico, ma clandestinamente. “Le ragazze più giovani ci chiedono supporto: quelle di 20-25 anni sono nate e cresciute durante il periodo della presenza occidentale, hanno quindi conosciuto solo dal 2021 cosa significa vivere sotto un regime talebano”, racconta il presidente della onlus. “Per loro questa condizione non è accettabile: le ragazze di città come Kabul ed Herat erano abituate ad andare a scuola, incontrarsi. Di colpo la loro vita è cambiata, creando in loro uno choc profondo. Da essere umano, ci si chiede: come è possibile?”. Alle bambine l’istruzione è vietata, e da quattro anni le donne sono recluse in casa. Non possono muoversi senza l’accompagnamento di un uomo e non possono lavorare, se non in alcuni settori. “Nelle città per fortuna la situazione non è arretrata come nelle aree rurali del Paese, ma l’Afghanistan non è solo Kabul”, ricorda il presidente di Pangea. L'unica speranza per le donne: l'arrivo del personale femminile L’unica speranza nel contesto drammatico dei soccorsi negati alle donne colpite dal terremoto, spiega Pangea, è riposta nel lavoro delle dottoresse e delle paramediche che stanno raggiungendo il Paese per curare le donne, ma i fondi sono scarsi. “Stiamo allestendo un progetto in fretta e furia, ma mancano risorse. Nel frattempo abbiamo stanziato un piccolo fondo di emergenza con una campagna di raccolta fondi”, dice Lo Presti. “Stiamo costruendo un’equipe mista, di uomini e donne, ma ne partiranno pochissimi, perché non abbiamo risorse. Stiamo organizzando tre piccoli team composti da due dottoresse e due paramedici ciascuno. Il primo è arrivato oggi, gli altri due li faremo partire al più presto”, racconta il presidente di Pangea ricordando che la mancanza di fondi è invalidante: “Ci si può rimboccare le maniche, ma per soccorrere servono attrezzature e mezzi che hanno un costo, così come va retribuito il personale che mette a repentaglio la propria vita dopo aver camminato tre ore con attrezzatura pesante sulle spalle. Poche ore fa mi è stato comunicato dalle zone colpite che in questo momento c’è un solo elicottero messo a disposizione dal ministero della Difesa talebano, ma carica soltanto 10 persone alla volta". E ovviamente sono tutti uomini. Pangea spiega anche che i talebani in questi giorni hanno persino chiesto aiuto alle ONG. “Mi ha quasi fatto sorridere questa richiesta”, dice Lo Presti: “Io sono stato nel Paese per tre mesi, fino all’inizio di luglio, e girava voce che i talebani volessero cacciare dal Paese tutte le ONG straniere, compresa la nostra, perché dicevano che siamo delle spie. Ora invece hanno bisogno di noi e ci hanno convocato per intervenire, ma loro non contribuiscono economicamente”. Le difficoltà nei soccorsi: i villaggi si raggiungono solo a piedi Un’ulteriore emergenza riguarda infatti gli spostamenti difficilissimi per chi presta soccorso: la maggioranza degli afghani colpiti dal sisma vive in case costruite con mattoni di fango vulnerabili ai crolli, e i villaggi distrutti dal sisma si raggiungono a piedi. “Alcune aree erano raggiungibili con i fuoristrada ma il terremoto ha causato anche delle frane, ha quindi bloccato le auto. Stamattina i nostri medici hanno impiegato tre ore solo per raggiungere a piedi il luogo dei soccorsi caricandosi l’attrezzatura sulle spalle in montagna, a 4-5 mila metri di altitudine”. Un altro problema è rappresentato dalle temperature, già rigide a inizio settembre: “Tra un paio di settimane dormiremo al freddo tra le macerie, ma c’è poco tempo per muoverci perché entro un mese in quella zona nevicherà. Dovremo poi capire se strutturare degli shelter attrezzati, ma a quell’altitudine non possiamo utilizzare tende: si morirebbe di freddo”. E poi ci sono gli animali: “Si stima ci siano 5-6000 cadaveri di animali sotto le macerie: se le carcasse vengono lasciate lì a marcire rischiano di causare infezioni e malattie”. Un quadro disastroso, sottolinea Lo Presti. Non si sa da dove cominciare, ma non si può restare a guardare.

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Giulia Mengolini