4 luglio, buon compleanno agli Stati (dis)uniti d'America

Buon compleanno agli Stati Uniti d’America, o forse dovremmo dire disuniti, perché in questo clima di incertezze generale, l’unica certezza, è che ci sono almeno due modi di leggere il mondo, uno contrapposto all’altro, ognuno con la sua verità. Te ne accorgi per strada parlando con le persone o partecipando ai grandi convegni internazionali che, come l’Aspen Transatlantic Conference di Washington, ospitano personaggi provenienti dai principali think tank mondiali. Nile Gardiner è il Direttore del Margaret Thatcher Center for Freedom. Il centro fa capo alla Heritage Foundation, storica organizzazione conservatrice che in America ha redatto il famigerato Progetto 2025: una sorta di manuale di governo della destra radicale da cui il Presidente Trump è stato costretto a dissociarsi in campagna elettorale. Ora, però, quelle stesse linee guida sembrano dettare almeno in parte l’agenda dell’Amministrazione. “Forniamo consigli a tutti i presidenti”, spiega Gardiner, “Trump ne sta seguendo solo alcuni”. Se in Europa molti ritengono che Trump stia mettendo a rischio la credibilità del proprio Paese, per Gardiner la situazione è diametralmente opposta: “Penso che gli Stati Uniti, sotto la guida del Presidente Trump, siano in una posizione molto forte. Non c'è dubbio che oggi ci sia una sola superpotenza nel mondo, ed è l’America. Non è l'Unione Europea, non sono certo i russi e non è nemmeno la Cina. Pechino, ovviamente, aspira a diventare la superpotenza mondiale, ma è molto lontana dal riuscirci”. Sotto Trump, la lotta all’immigrazione clandestina è diventata materia da reality show, con Segretari che registrano reel social davanti ai detenuti in gabbia e centri per gli illegali dai nomi volutamente sinistri. Eppure Gardiner ritiene che il resto del mondo dovrebbe prendere esempio da Washington: “Sotto la presidenza Trump il confine degli Stati Uniti è sicuro e alla fine diversi milioni di migranti illegali saranno espulsi. Mi aspetto che questo diventi un modello da seguire anche per molti paesi europei nei prossimi anni. Sta guadagnando molta attenzione”. Più sfumata l’opinione di Grover Norquist. Il suo Americans for Tax Reform è un’organizzazione iperliberista, che crede nella deregulation fiscale come innesco per la crescita. Probabilmente i conservatori alla Norquist condannano certi eccessi del trumpismo, ma il Big Beautiful Bill, che taglia drasticamente le tasse per i cittadini più abbienti, va esattamente nella loro direzione. Secondo Norquist il piano fiscale di Trump è decisamente virtuoso, e i quasi dodici milioni di americani che rischiano di perdere l’assicurazione sanitaria sono per lo più cittadini che non meritano di averla. “Quando Obama era presidente”, spiega Norquist, “ha ampliato Medicaid trasformandola in un programma di assistenza sociale. Doveva essere un'assistenza sanitaria integrativa per le persone che lavoravano, che avevano un lavoro. E lui ha detto: no, non è necessario avere un lavoro. Potrai avere ventisei anni, startene seduto a guardare la TV tutto il giorno e noi te la daremo comunque. Non è a questo che serviva. Ora stiamo tornando alla discussione originale. Bisognerà anche scovare le frodi. In passato non abbiamo verificato se le persone si registravano con due nomi diversi o se in alcuni stati c'erano milionari che ricevevano Medicaid. Se ci sono così tante persone che non dovrebbero ricevere Medicaid, escluderle è una buona idea”. A Norquist abbiamo chiesto di fare il gioco della torre, e fra Trump e Musk non ha avuto esitazioni: “Elon Musk è abituato ad entrare in un'azienda che è in crisi e licenziare l'ottanta per cento dei dipendenti, perché in un'azienda privata è possibile farlo, riorganizzarla, renderla redditizia e farla crescere. Nel governo federale ci sono molte persone che non lavorano veramente, che non sono necessarie e che dovrebbero fare qualcos'altro. Ma le regole sono tali che non si può semplicemente entrare e stravolgere tutto. È comprensibile che Musk sia frustrato: come uomo d'affari, potrebbe risolvere la situazione molto rapidamente. Ma questa è la politica, questo è il governo”. Certo per chi crede che l’economia debba essere lasciata sostanzialmente libera di esprimere il proprio potenziale, una politica commerciale protezionistica non è esattamente la ricetta migliore da adottare. Secondo Norquist, però, Trump ha usato i dazi soprattutto come leva negoziale e come strumento per riparare ai torti subiti dall’America. “Trump aveva ragione nel dire che poteva usare la minaccia delle tariffe per costringere altri paesi a cambiare le politiche antiamericane. Il tentativo del Canada di tassare le aziende digitali era solo un modo per rubare soldi alle aziende americane. I tentativi dell'Europa di tassare le aziende digitali high-tech sono solo un tentativo di rubare denaro alle aziende americane. Questo deve finire. L'ultima volta che qualcuno in Europa ha provato a imporci delle tasse abbiamo iniziato a sparargli e ha dovuto lasciare il Continente. Stesso convegno, diverse chiavi di lettura. L’America di Trump dice Robin Niblett, direttore di Chatham House, uno dei più prestigiosi think tank britannici, “sta cercando di riconnettere i vinti con i vincitori. Questo significa che non ha tempo per gli alleati”. Donald Trump – spiega lo specialista - non crede davvero nelle alleanze. Allearsi significa essere gentili con gli altri Paesi senza ottenere nulla in cambio. E questo è l'opposto del suo approccio commerciale alla vita, agli affari e alla politica. Le nostre economie – dice Niblett - sono deboli, perché le nostre popolazioni sono divise. E le nostre popolazioni sono divise, perché il periodo della globalizzazione, dopo il 1990, ha creato vincitori e vinti. I nostri governi, i think tank, noi, non abbiamo visto questa divisione interna, perché eravamo concentrati sulle opportunità globali delle quali molte persone hanno beneficiato. Se si guarda al PIL americano pro capite, si nota che è aumentato, è più alto che mai. Ma anche le divisioni all'interno dell'America si sono ampliate nello stesso periodo. Quindi la democrazia può essere forte solo se le persone si sentono coinvolte. Se il trenta, il quaranta per cento della popolazione è insoddisfatta, la democrazia si indebolisce perché non basta arrivare al cinquanta per cento. Per di più la Russia e la Cina stanno sfruttando la frustrazione all'interno delle nostre società. Stanno cercando di combattere una nuova guerra fredda all'interno delle nostre democrazie e le nostre democrazie sono molto vulnerabili. Niblett parla delle priorità della politica estera di Trump che a suo dire, sono legate all’idea di rendere di nuovo grande l'America. La politica estera, per questo Presidente, è in realtà semplicemente un elemento della propria politica interna, sempre predominante nella sua mente. Negli Stati Uniti come dall’altra parte dell’oceano sono in molti a chiedersi se con l’amministrazione Trump la democrazia sia a rischio. Edward Luttwak, l’economista politologo romeno naturalizzato statunitense, risponde alla domanda ricordandoci che il Presidente Trump non ha preso il potere con la forza ma è stato eletto. Ci tiene poi a sottolineare le differenze con gli altri leader mondiali. Trump non è come il presidente cinese Xi Jinping, non è il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman e non è neanche come Putin. Trump – ribadisce Luttwak - è stato eletto e una volta eletto, ha esercitato il suo potere al massimo utilizzando il sistema dei decreti. Per il consulente strategico del governo americano è un errore affermare che con l’attuale amministrazione si è tornati al primo Medioevo, dove invece vivono tuttora l’Arabia Saudita e la Cina. Putin, prosegue lo stratega, non è come Trump, il presidente russo è più come un capo banda. La guerra in Ucraina è un tema sentito soprattutto in Europa, mentre in America viene vissuto attraverso la frustrazione del presidente americano: aveva promesso di risolvere la crisi rapidamente, ora – dopo l’ennesima telefonata con Putin – è costretto ad ammettere che non c’è stato il minimo progresso. Ne parliamo con Kurt Volker, ex rappresentante speciale degli Stati Uniti per i negoziati con l'Ucraina dal 2017 al 2019 e Ambasciatore alla NATO dal 2008 al 2009. Il diplomatico ha lavorato a stretto contatto con il Presidente Trump durante il suo primo mandato. I negoziati sono ad un punto morto. In molti si chiedono se alla fine il presidente americano imporrà nuove sanzioni alla Russia per fare pressione su Vladimir Putin. È difficile dirlo, ci spiega Volker: “Trump ha davvero cercato di evitarlo. Vuole avviare una negoziazione per un cessate il fuoco. E pensa, credo erroneamente, che se si impongono sanzioni a Putin sia meno probabile che questo accetti un cessate il fuoco. Personalmente penso che sia il contrario. Penso che Putin abbia bisogno di sentire pressione per accettare un cessate il fuoco, altrimenti continuerà con la sua campagna militare. Ma vedremo come andrà. Abbiamo ottantaquattro senatori che hanno firmato leggi e proposto sanzioni secondarie. Si tratta di provvedimenti che passerebbero facilmente al Senato e anche alla Camera, dando a Trump l'opportunità di imporre ulteriori sanzioni. Finora Trump ha cercato di dire al Senato di non farlo, di aspettare, convinto di avere ancora tempo, ma spero che il Senato agisca prima della fine di questo mese e che Trump consenta l'entrata in vigore delle sanzioni”. Anche quando si occupa di politica estera, Trump gioca le sue carte sperando di vincere una partita che si svolge tutta all’interno del Paese. Il Presidente è il protagonista assoluto di questa fase della storia americana, ma c’è una metà del Paese che non si riconosce in lui e non ha ancora trovato un campione in grado di sfidarlo.

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