Perché Israele ha attaccato l'Iran (e qual è il ruolo degli Usa)

Nella notte tra il 12 e il 13 giugno una serie di attacchi israeliani ha colpito impianti nucleari, siti militari e zone residenziali dell’Iran per assestare un duro colpo al programma nucleare iraniano e al suo apparato di difesa. I raid hanno preso di mira in particolare il sito nucleare di Natanz, oltre a numerosi alti funzionari dell’apparato di difesa iraniano. Tra le prime vittime confermate figurano: Hossein Salami, comandante in capo delle Guardie della Rivoluzione Islamica ; Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate iraniane; Gholam Ali Rashid, comandante del quartier generale centrale di Khatam-al Anbiya; almeno sei scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano; e, soprattutto, Ali Shamkhani, consigliere politico della guida Ali Khamenei. Sebbene sia ancora troppo presto per fornire un bilancio preciso, i raid condotti in numerosi quartieri residenziali sembrano aver causato anche un certo numero di vittime civili. Nel frattempo, l’Iran ha già lanciato i primi droni in direzione di Israele, secondo le autorità di Tel Aviv sarebbero stati tutti intercettati, e ha promesso una risposta dura e proporzionata. Il governo Netanyahu è stato trasferito in una località segreta, mentre le autorità di Tel Aviv hanno ordinato alla popolazione di restare in casa. L’operazione israeliana, denominata “Leone nascente” e anticipata da una precedente operazione sotto copertura da parte del Mossad all’interno del territorio iraniano, ha gettato nuovamente la regione nel caos portando all’annullamento del sesto round di negoziati tra Stati Uniti e Iran previsto per domenica in Oman. Non è ancora chiaro quale sia stato il grado di coinvolgimento statunitense nell’attacco, ma il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha già accusato Washington di corresponsabilità . L’accordo sul nucleare appare ora sempre più lontano, e un’eventuale uscita dell’Iran dal Trattato di non proliferazione nucleare sembra una possibilità concreta. Più che allontanare Teheran dalla bomba atomica, l’operazione israeliana sembra averla avvicinata. Negoziare sulle montagne russe Dall’inizio del secondo mandato dell’amministrazione Trump, le relazioni tra Stati Uniti e Iran hanno vissuto una fase di forti contrasti alternando momenti di tensione a inaspettati segnali di apertura. Appena insediato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un provvedimento che annunciava il ripristino della strategia di “massima pressione” nei confronti dell’Iran. L’obiettivo di Washington era quello di azzerare le esportazioni di petrolio, principale fonte di entrate per il paese, al fine di indebolire ulteriormente la sua economia e costringerlo a negoziare un nuovo accordo. In quell’occasione Trump dichiarò di aver esitato prima di firmare il provvedimento ma la scelta di alzare il livello dello scontro provocò una forte reazione anche da parte della compagine più moderata della politica iraniana. A inizio marzo, dopo alcune dichiarazioni critiche da parte della guida Ali Khamenei, il presidente della Repubblica islamica Masoud Pezeshkian – eletto nel 2024 con una campagna incentrata sulla riapertura dei canali diplomatici con gli Stati Uniti – ha reagito duramente scagliandosi contro l’amministrazione statunitense e Donald Trump, affermando che “È inaccettabile per noi che loro diano ordini e facciano minacce. Non negozierò con te. Fai quel diavolo che vuoi”. Tuttavia, quando sembrava non esservi più alcun margine per ripristinare un canale di dialogo tra i due Paesi, una lettera di Trump indirizzata a Khamenei, consegnata tramite il consigliere diplomatico emiratino Anwar Gargash, ha nuovamente cambiato il corso degli eventi. Sebbene il contenuto preciso della missiva non sia stato reso pubblico, alcune fonti rivelano che Trump vi avrebbe indicato un termine di due mesi per raggiungere un accordo sul programma nucleare. Questa lettera, e la successiva risposta iraniana inviata tramite l’Oman, hanno contribuito a creare i presupposti per i nuovi dialoghi sul nucleare. A partire dal 12 aprile si sono tenuti cinque round di colloqui indiretti tra Stati Uniti e Iran, con sedi tra Muscat e Roma, sotto la mediazione del ministro degli Esteri dell’Oman. Teheran e Washington hanno tenuto colloqui indiretti sia a livello politico sia a livello tecnico e sembravano essere orientati a raggiungere un’intesa senza grosse difficoltà. A metà maggio lo stesso Trump aveva dichiarato che i due Paesi erano vicini a un accordo e anche l’Iran sembrava essere soddisfatto dei progressi in corso. Tuttavia, tra il quarto e il sesto round , qualcosa sembra essersi incrinato fino a sfociare nell’annullamento del sesto round di colloqui previsti in Oman e all’attacco diretto israeliano che ha ucciso alcuni vertici militari, importanti personalità legate al programma nucleare iraniano e colpito l’impianto nucleare di Natanz. I fattori della discordia Il principale fattore nella nuova impasse nei negoziati tra Stati Uniti e Iran è stato, senza dubbio, il divario tra le aspettative delle due parti sul risultato finale dei colloqui. L’amministrazione Trump ha continuato a pretendere il completo smantellamento del programma nucleare iraniano, escludendo persino la possibilità di un arricchimento dell’uranio per fini civili. L’Iran invece ha sempre rifiutato tale opzione, proponendo soluzioni alternative che potessero contemperare le richieste statunitensi di maggiore controllo con la propria sovranità tecnologica. Tra le ipotesi più concrete vi è stata, per alcune settimane, la creazione di un consorzio regionale per la produzione di uranio arricchito. Tale consorzio avrebbe incluso anche i paesi del Golfo, l’uranio prodotto sarebbe stato suddiviso tra gli stati membri e l’arricchimento sarebbe stato soggetto alla supervisione delle monarchie della penisola arabica. Tuttavia, anche questa proposta si è rapidamente trasformata in terreno di scontro. Washington reputava che questa soluzione potesse porre fine al programma nucleare iraniano mentre Teheran si è detta indisponibile a rinunciarvi . Il primo nodo del contendere è stato quindi la natura stessa dell’accordo da raggiungere. Tuttavia, a complicare ulteriormente la situazione sono intervenuti anche altri fattori. Uno di questi è rappresentato dalla forte polarizzazione interna agli Stati Uniti riguardo al come relazionarsi con Teheran. Nel corso degli ultimi mesi un acceso dibattito, alimentato da un’intensa campagna di lobbying da parte dell’ala più oltranzista del Partito Repubblicano e della lobby israeliana, ha messo sotto pressione Trump e il suo negoziatore Steve Witkoff su come stavano gestendo i colloqui con l’Iran. I “falchi” del partito hanno apertamente cercato di sabotare i colloqui e hanno finito per sostenere l’idea di un attacco preventivo israeliano contro i siti nucleari iraniani. Anche Israele ha avuto un ruolo significativo nell’aumentare la tensione. Con il ridimensionamento di Hamas, Hezbollah e la caduta del governo di Bashar al-Assad in Siria, Teheran si trova in una fase di fragilità regionale. Per Tel Aviv la debolezza iraniana ha rappresentato un’occasione unica per colpire le infrastrutture nucleari iraniane e infliggere un colpo decisivo alle sue capacità militari. Infine, un ulteriore elemento di frizione è stato rappresentato dall’atteggiamento dei paesi europei firmatari dell’accordo nucleare del 2015 . Francia, Germania e Regno Unito , pur esclusi dalle trattative bilaterali tra Washington e Teheran, hanno più volte minacciato di reimporre le sanzioni delle Nazioni Unite in scadenza a ottobre e si sono fatti promotori della risoluzione dell’Agenzia internazionale per l’energia Atomica che ha condannato l’Iran per la violazione dei suoi obblighi di non proliferazione. Si tratta della prima risoluzione di condanna di questo tipo da parte dell’Aiea in quasi venti anni. L’Iran ha accusato l’Agenzia di aver espresso una condanna basata su motivazioni politica e ha minacciato di accelerare il suo programma nucleare. Il Jcpoa, cattedrale nel deserto? L’intransigenza statunitense, le violazioni iraniane, le pressioni di Israele e dell’ala conservatrice del Partito Repubblicano hanno compromesso in modo significativo il percorso verso un nuovo accordo sul nucleare. Un’intesa che, sebbene diversa dal JCPOA, avrebbe potuto contribuire ad allentare la tensione nella regione e stabilizzare un quadro geopolitico sempre più fragile. L’accordo siglato nel 2015 dall’amministrazione Obama e dal governo di Hassan Rouhani prevedeva, per quanto riguarda l’arricchimento dell’uranio, un limite massimo del 3,67% e fissava una soglia quantitativa a 300 chilogrammi di esafluoruro di uranio . Oggi, sette anni dopo la decisione unilaterale della prima amministrazione Trump di ritirarsi dall’accordo nel 2018, la situazione si è radicalmente trasformata. L’Iran arricchisce uranio al 60% e detiene una quantità di UF6 pari a 8413,3 chilogrammi. Se da un lato l’uscita dal Jcpoa ha ripristinato la politica della “massima pressione” infliggendo gravi danni all’economia iraniana, dall’altro ha spinto Teheran ad accelerare lo sviluppo del proprio programma nucleare, al quale oggi non è più disposta a rinunciare. Parallelamente, la Repubblica islamica ha assunto un atteggiamento sempre più ambiguo e reticente nei confronti delle attività di monitoraggio internazionale, alimentando sospetti e preoccupazioni sulla reale natura dei suoi obiettivi. Dove andare ora? Prima di poter valutare il reale impatto di questa nuova escalation tra Israele e Iran , sarà necessario comprendere se le accuse pronunciate dal ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, saranno seguite da attacchi diretti contro la presenza militare statunitense nella regione. Il ritiro del personale americano dall’Iraq e da altre basi nella regione non lascia ben sperare, così come la minaccia, sempre più concreta, di un’uscita dell’Iran dal Trattato di non proliferazione nucleare. L’intransigenza statunitense, che continua a chiedere la cessazione dell’arricchimento dell’uranio anche per scopi civili, unita alla cancellazione del sesto round di colloqui tra Washington e Teheran e all’inevitabile inasprimento dello scontro tra Tel Aviv e Teheran, rischia non solo di far naufragare definitivamente ogni prospettiva di negoziato ma anche di far precipitare l’intera regione in un nuovo conflitto dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. A guardare con crescente preoccupazione questa escalation e l’approccio egemonico adottato da Israele sono soprattutto i paesi del Golfo. Tradizionalmente critici nei confronti dell’Iran e tra i principali oppositori dell’accordo sul nucleare , oggi sono paradossalmente proprio loro i primi sostenitori di un riavvicinamento negoziale tra Washington e Teheran. La necessità di riequilibrare i rapporti di forza regionali e contenere la superiorità militare israeliana spinge le monarchie del Golfo a considerare il reintegro dell’Iran all’interno di un sistema di sicurezza regionale. È per questo che potrebbero essere proprio questi attori a tentare di riportare Stati Uniti e Iran al tavolo negoziale. Solo una decisa pressione diplomatica da parte del Golfo sull’amministrazione statunitense potrebbe convincere il presidente Trump a esercitare un contenimento sull’alleato israeliano, che oggi appare operare senza freni e oltrepassa tutte le consuete “linee rosse” spingendosi fino a compromettere la stabilità regionale pur di rafforzare il proprio ruolo egemonico e di distogliere l’attenzione dalle crescenti tensioni interne.

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