Atomica e Trump: come cambia il Medioriente dopo gli attacchi all’Iran

“Se c’era un gioco, il gioco è finito: game over”. Secondo Pejman Abdelmohammadi, professore di Relazioni internazionali all’università di Trento, se mai fosse stata una opzione sul tavolo, la possibilità di un intervento “leggero” da parte degli Stati Uniti con l’Iran si sarebbe dissolta sotto il peso dell’attacco di Israele. “Un colpo d’apertura molto ben riuscito”, così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito il raid avviato alle 2 di notte italiane, presentando l’operazione “Rising Lion” che, da annunci dello stesso primo ministro, nei prossimi giorni dovrebbe proseguire con altri attacchi mirati ai vertici del programma nucleare di Teheran. Il Paese sciita ha sempre negato di voler costruire un’arma nucleare, ma proprio ieri era stato accusato dall’Aiea, l’agenzia Onu per l’energia atomica, di aver raggiunto livelli di arricchimento dell’uranio molto superiori rispetto a quelli necessari per qualsiasi altro uso. “Teheran era molto vicino all’atomica – ha commentato Netanyahu – Questi attacchi servono alla nostra sicurezza”. Al momento, i media iraniani parlano di almeno 6 scienziati uccisi nel raid, altri civili coinvolti, di 50 feriti e di 8 città colpite, ma di nessun danno alle strutture petrolifere. Secondo il portavoce dell’esercito di Tel Aviv, Teheran avrebbe risposto con il lancio di oltre cento droni verso Israele. “Probabilmente Netanyahu ha visto nelle ultime 48 ore che Teheran stava giocando la stessa partita degli anni scorsi con gli Usa e non ha voluto aspettare – commenta Abdelmohammadi – Israele non ha attaccato l’Iran, in questo momento, ma la Repubblica islamica, che è diverso”. E, con queste premesse, torna il rischio di un’escalation in Medioriente. Trump appoggia l'operazione? Trump era stato informato degli attacchi, ma non ha partecipato al raid. Questo è il commento ufficiale della Casa Bianca che, secondo il professor Abdelmohammadi, avrebbe lo stesso obiettivo di Tel Aviv: “Non avere la Repubblica islamica presente accanto a Israele”. Ma i due alleati, prima dell’intervento di stanotte, avevano in mente due strade diverse: “Trump avrebbe esercitato una pressione più leggera, dall’interno, mentre Netanyahu voleva attaccare e così ha fatto. Non penso che sia una operazione ‘a consumo interno’ tra Washington e Tel Aviv. Credo, invece, che sia una strategia chiara e mirata di Israele contro la Repubblica islamica”. L’operazione repentina di Israele sarebbe, dunque, il risultato di visioni opposte sull’azione in Medioriente da parte dei due leader: “Netanyahu non crede nel dialogo con l’Iran – commenta Giuseppe Sarcina, editorialista del Corriere della Sera – Donald Trump, invece, punta comunque a una stabilizzazione dell’area e dei rapporti sia con Israele sia con l’Arabia Saudita, considerato un Paese chiave nella regione. Ma ora si trova in una situazione di difficoltà di fronte ai raid di Netanyahu, perché non ha più in mano tutte le leve dello scacchiere”. Che, però, l’operazione “Rising Lion” possa aver incrinato il rapporto tra Usa e Israele è ancora inverosimile: “Nessuno può stare al sicuro con Donald Trump – argomenta Sarcina – ma c’è una sorta di inerzia nel comportamento degli Stati Uniti quando si tratta di avere a che fare con Israele. E gli attacchi di stanotte lo confermano”. La reazione dell'Iran L’impressione è che, a differenza degli attacchi dello scorso ottobre, la risposta iraniana a Tel Aviv possa essere più dura: “Khamenei non può permettersi di rimandare di settimane o mesi, come le altre volte – continua Abdelmohammadi – ma bisogna vedere se un raid iraniano avrà un impatto: la Repubblica islamica è molto debole da più di un anno e non credo che possa essere un attacco devastante per Israele, sebbene possano comunque farsi del male”. Qualcosa potrebbe cambiare se il sostegno all’Iran arrivasse da altre potenze. Con il rischio di un allargamento del conflitto. “Il grande protettore di Teheran, in questo momento, è Pechino – spiega il professore di Relazioni internazionali di Trento – L’altro protettore, ovvero la Russia, è piccolo. Ha già barattato la Siria e potrebbe aver già fatto lo stesso con l’Iran. L’unico attore globale al fianco di Khamenei è la Cina. Gli altri sostenitori regionali, che a mio avviso sono gruppi criminali transnazionali, sono stati quasi tutti devastati. Hamas e gli Houthi sono gli unici due in vita, ma Hamas è debole e solo gli Houthi potrebbero fare qualcosa, ma non sono alleati che potrebbero ora fare del male davvero a Israele”. C'è davvero il rischio di un'atomica a Teheran? L’accusa dell’Aiea a Teheran parla di livelli di arricchimento dell’uranio vicini al 60%, utili soltanto per la costruzione di un’arma nucleare. Il richiamo è stato diramato in una risoluzione approvata giovedì dal Consiglio dei governatori: l’accusa sostiene che dal 2019 l’Iran non avrebbe rispettato il Trattato di non proliferazione nucleare e non avrebbe permesso agli ispettori dell’Onu di verificare l’avanzamento del programma atomico. “Dal 2019 Teheran ha ricominciato ad arricchire l’uranio – spiega Farian Sabahi, ricercatrice all’università dell’Insubria – Lo stock di uranio arricchito è superiore di 28 volte al limite permesso dagli accordi e ci sono 164 chili arricchiti al 60%. Se arrivasse al 90%, ci sarebbe il potenziale per 4 armi nucleari”. Due certezze, però, ci sono: “Al momento l’Iran non ha l’atomica e, dopo questi bombardamenti, siamo sicuri che gli iraniani vogliano dotarsi dell’atomica come arma di deterrenza”. Nell’attacco di Israele, oltre alle infrastrutture, sono stati mirati e uccisi uomini molto vicini alla guida suprema Ali Khamenei ma anche personaggi strategici, tra cui due scienziati, per l’avanzamento del programma nucleare: “La voglia di Netanyahu è di indurre un cambio di regime, ma lo abbiamo visto: morto un Papa se ne fa un altro. E, di solito, la leadership iraniana in questi casi si rinsalda, compattando l’opinione pubblica e rafforzando l’idea della necessità di un’atomica”.

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