Tenuta in "vita" per partorire: perché Adriana Smith non può scegliere

In questo momento, in una stanza d'ospedale di Atlanta, capitale dello Stato americano della Georgia, un'infermiera trentenne è costretta a restare attaccata a un respiratore per far nascere un feto. La donna è stata dichiarata cerebralmente morta a febbraio, dopo che una TAC a cui si è sottoposta a causa di forti mal di testa ha evidenziato la presenza di coaguli di sangue nel suo cervello. Ma quando le sue condizioni neurologiche sono cambiate in modo irreversibile, la donna era incinta di otto settimane. Il suo nome è Adriana Smith e alla fine di luglio sarà costretta a partorire il suo bambino con un parto cesareo in nome della legge sull’aborto della Georgia, fra le più restrittive del Paese dal 2022, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò la sentenza Roe contro Wade del 1973 che garantiva il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza in tutto il Paese. Per i medici che la assistono non è consentito interrompere o rimuovere i dispositivi che permettono a Smith di respirare, “perché la legge statale vieta l'aborto, dopo che è stata rilevata attività cardiaca nel feto, in genere intorno alle sei settimane di gravidanza”. Adriana Smith, che ha già un figlio di sette anni, non ha avuto la possibilità di scegliere se portare o no avanti quella gravidanza mentre il suo bambino si sta formando all’interno di un corpo morto, così come non ha avuto voce in capitolo la sua famiglia. È lo Stato della Georgia a decidere per lei, per loro. La madre di Smith, April Newkirk, ha denunciato di non avere alcuna possibilità di scelta sui trattamenti per la figlia né sulla sua gravidanza. “Non abbiamo avuto scelta né voce in capitolo”, ha spiegato. “Vogliamo il bambino. È una parte di mia figlia. Ma la decisione avrebbe dovuto essere lasciata a noi, non allo Stato”. E a preoccupare la famiglia c’è il futuro di quel bambino, che, hanno spiegato i medici, se dovesse riuscire a sopravvivere potrebbe avere gravi malformazioni. Secondo Steven Ralston, direttore della divisione di medicina materno-fetale all’Università di Washington, “le probabilità di avere un neonato in salute alla fine di questa situazione sono molto, molto basse“. Intanto l’Emory University Hospitla dove viene "tenuta in vita" - un tempo luogo di lavoro della donna - ha dichiarato alla stampa di non poter commentare il caso, ma di agire "in conformità con le leggi sull'aborto della Georgia e con tutte le altre leggi applicabili". Una storia che ricorda il nono episodio della serie tv “Il racconto dell’ancella”, ispirato all’omonimo romanzo distopico della poetessa canadese Margaret Atwood, in cui la protagonista è costretta a vegliare su una donna, in coma da oltre un mese, tenuta in vita dai macchinari fino a quando non porterà a termine la gravidanza. Il caso di Smith però è reale, nessuna distopia. E sta accendendo un dibattito internazionale sui confini dell’etica. L’autodeterminazione delle donne lascia spazio a un compito ancestrale: quello di produrre nuova vita, a tutti i costi. E la vita di una donna, ci si chiede, vale meno di quella di un embrione?. “L’idea di fondo che questa storia ci mostra è che una donna cadavere e una donna viva abbiano la stessa funzione: quella di essere incubatrici umane. Non fa nessuna differenza”, commenta a SkyTG24 Insider Caterina Botti, professoressa associata di Filosofia morale alla Sapienza di Roma, dove insegna Etica, filosofie femministe e Studi di genere. Professoressa Botti, il caso di Adriana Smith è unico nel suo genere? No, non è il primo: ce ne sono stati altri simili sia negli Stati Uniti che altrove, anche piuttosto famosi. I primi di cui ho notizia risalgono al 1981 e 1983, ma la differenza è che si trattava sì di donne cerebralmente morte come Smith, ma quasi a termine della gravidanza. E poi c'è il caso storico di Tricia Marshall nel 1993. La donna che partorì dopo che era stata dichiarata cerebralmente morta 104 giorni prima a seguito di una sparatoria. Sì, Marshall venne gravemente ferita mentre rapinava un’abitazione. Arrivò in ospedale in fin di vita ma alla 17esima settimana e venne tenuta attaccata alla macchine in stato di morte cerebrale per oltre tre mesi. Nacque un bambino relativamente sano, ma anche la sua gravidanza era più avanti di quella di Smith. Questo è l’unico caso simile di cui ci ha notizia di un esito positivo per il bambino nato. Un altro caso risale al 2005 e riguardava una donna italiana cerebralmente morta alla 20esima settimana: ebbe un aborto spontaneo. Uno dei temi cruciali in questa storia è il consenso al proseguire la gravidanza in uno stato di morte. Chi deve dare il consenso? Negli Stati Uniti sulla propria morte si può decidere da molto prima che da noi in Italia attraverso quelle che si chiamano “direttive anticipate”. La questione interessante è che tuttavia quando una donna è incinta le direttive anticipate saltano. Significa che non è concepibile, per esempio, che una donna possa prevedere di rimanere vittima di un incidente all’inizio della sua gravidanza, e decidere che in quel caso non vorrà essere mantenuta in vita, ed evitare che la creatura che potrebbe nascere avrà una vita di sofferenze. Insomma, non è concepibile che una donna possa responsabilmente scegliere. Perché una donna in gravidanza non ha possibilità di scelta sul proprio corpo? Se una donna è incinta si immagina che automaticamente voglia mettere al mondo la creatura che porta in grembo ad ogni costo, e questo annulla qualsiasi altra considerazione. Non solo in fatto di libertà sul proprio corpo, ma anche di scelta responsabile. Come se le donne diventassero semplicemente il mezzo per la nascita di qualcun altro. È come se diventassimo quindi una sorta di incubatrici? Assolutamente sì: delle incubatrici di carne. I primi casi che ho citato erano casi in cui essendo le gravidanze quasi a termine si poteva decidere di far nascere subito il feto e metterlo in un’incubatrice. Invece si è scelto di provare a tenerlo a tutti i costi in un’incubatrice di carne, appunto, anziché una artificiale. La vita del feto vale quindi più della vita della donna. Sicuramente sì. E questo rappresenta un problema anche per gli aborti di emergenza che negli Stati Uniti non saranno possibili. E allora l’essere in gravidanza minaccia la vita delle donne. La vita fetale qui vale più di quella della donna, e questa è una storia molto vecchia. Tutte le leggi che vietano l’aborto si appoggiano su questo tipo di gerarchia. Le donne sono sempre state un tramite per dare nuovi nati. Come se riprodurre fosse il loro destino. La legge restrittiva sull’aborto in Georgia in questa storia c’entra, ma fino a un certo punto. Perché? Perché la verità è che la legge, che è molto restrittiva sull’aborto, non implica necessariamente il divieto di sconnettere supporti vitali a una donna in stato di morte cerebrale, come ha dichiarato anche il General Attorney della Geogria, me è evidente che, d'altra parte, essa ha avuto un ruolo in questa vicenda e nella scelta dell'ospedale. Il tema invece è che questa storia illumina un altro punto: la legge della Georgia non solo vieta l’aborto dopo la sesta settimana, ma parla anche di “personalità giuridica del feto”. Lo Stato infatti riconosce il feto come una persona giuridica. Questo cosa comporta? Significa che non solo una donna morta, ma anche una donna viva non può prendere una decisione responsabile sulla propria gravidanza se scopre che il feto ha una grave malattia. Non può scegliere lei, e nemmeno la sua famiglia. Questo ci fa capire come la considerazione di una donna, se incinta, cambi radicalmente: non è più un soggetto responsabile capace di decidere delle sue azioni. Qualsiasi donna in gravidanza viene quindi esautorata non sono della possibilità di decidere sul proprio corpo, ma anche di decidere sul destino di chi lei metterà al mondo. Significa sposare una concezione per cui ogni vita, in qualsiasi caso, vale la pena di essere vissuta. Questa storia ricorda un episodio della serie tratta dal romanzo distopico “Il racconto dell’ancella”. Sì, perché l'idea di fondo è che una donna cadavere e una donna viva abbiano la stessa funzione, non fa nessuna differenza. Si parla tanto dell’importanza dello scambio materno-fetale, ma quando si tratta di mantenere un cadavere attaccato a un respiratore lo scambio non interessa più. Parlando sempre di altre asimmetrie, ne vorrei sottolineare un'altra. Prego. Noi possiamo decidere di negare il consenso alla donazione dei nostri organi, anche se questi dovessero salvare la vita di una o più persone. Possiamo quindi disporre sempre del nostro cadavere, scegliere di non dare la vita a una persona indubitabilmente viva, non un feto. Mentre non possiamo scegliere se il soggetto è un feto, o addirittura un embrione. E poi c'è un altro aspetto. Quale? Parlando di procreazione medicalmente assistita, in Italia consideriamo che sia gravissimo farsi fecondare con il seme del marito deceduto, o reinserire nell'utero della futura madre un embrione congelato se l’altro membro della coppia non c’è più. Il tema è che il bambino nascerebbe orfano. E mentre in un caso l’”orfanitudine” rappresenta l’argomento per evitare a una donna di avere una gravidanza, nel caso sia la donna a essere morta non ci sono controindicazioni. Dovremmo dedurre che allora essere orfano di padre è diverso da essere orfano di madre? A proposito di orfani, in questa terribile storia ci sono anche i bambini, quelli che nasceranno da un corpo senza vita, e senza una madre. Sì, tutto questo non crea solo un danno alla donna ma anche ai nuovi nati: perché essere messi al mondo in qualsiasi modo, come se fossimo conigli, crea un danno reale anche a chi nasce. Nascere non può essere sempre la scelta migliore, soprattutto se stiamo parlando di un embrione di sei settimane. In quel caso si sceglie di condannare chi viene al mondo a nascere orfano, gravemente malato, forse con nessuno pronto ad accoglierlo. E in nome di una personalità giuridica astratta. Quindi oltre a una condizione di illibertà delle donne, si aggiunge anche una riduzione del senso umano della nascita. Che è essere desiderati, voluti, accolti.

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