Usa, Israele, Hamas: la non-proposta che respinge la fine della guerra

Tanto rumore per nulla: nella serata italiana di ieri, rimbalzava l’indiscrezione di un possibile accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas sulla base di un piano proposto dall’inviato speciale statunitense Steve Witkoff. Alla prova dei fatti, però, ancora una volta la tregua tanto attesa non si è realizzata. Secondo quanto ricostruito dai media israeliani, l'ultima proposta di Witkoff, inviato del presidente Usa Donald Trump per la regione, avrebbe aperto ad un cessate il fuoco di 60 giorni e alla scarcerazione di oltre 1200 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, in cambio della liberazione di 10 ostaggi vivi da parte di Hamas e delle spoglie di 18 ostaggi deceduti. L’offerta tuttavia non prevedeva né il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia né la fine del conflitto, che i militanti islamisti hanno posto come precondizione per qualsiasi accordo. Il soccorso Usa a Netanyahu Logico, dunque, che la proposta sia apparsa più accettabile al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che alla leadership di Hamas. L’unica concessione chiesta a Israele in questa circostanza sarebbe stata la liberazione di 125 membri di Hamas condannati detenuti nelle carceri israeliane per terrorismo e un migliaio di prigionieri catturati dal 7 ottobre 2023 ad oggi e l’apertura di un negoziato volto a stabilire se e quando l’Israel Defense Force si sarebbe ritirata da alcune postazioni. Hamas non ha respinto a priori la bozza di proposta di Witkoff, ma ha contestato il fatto che fosse sbilanciata a favore di Tel Aviv. Nella giornata di oggi, la Bbc ha riferito che Hamas stava “profondamente riesaminando” il piano, ma che aveva lamentato – attraverso il portavoce Bassem Naim, - che la proposta “non risponde a nessuna delle richieste del nostro popolo, prima tra tutte quella di porre fine alla guerra e alla carestia”. La manovra statunitense appare simile a quella compiuta nel mese di marzo, quando di fronte alla rottura del cessate il fuoco siglato in Qatar a gennaio da parte di Tel Aviv Washington, formulò una una bozza di risoluzione del conflitto sostanzialmente favorevole al governo di Benjamin Netanyahu. In questo caso, gli Usa sembrano fornire una sponda diplomatica a Benjamin Netanyahu dopo diverse settimane di tensioni tra l’amministrazione di Donald Trump e il governo israeliano e un ampio fuoco di fila di critiche a livello internazionale contro Tel Aviv. Washington rinuncia a far pressione quando più serve Del resto, dopo oltre 600 giorni di guerra, osserva ISPI, riguardo l’atteggiamento americano verso Israele si percepisce “l’impressione di déjà vu” e Donald Trump sembra inserirsi sul solco tracciato da Joe Biden. Sul fronte di Gaza, “anche l’amministrazione americana di Trump afferma di voler porre fine alla guerra e di stare lavorando a un accordo”, ma alla prova dei fatti “finora Washington non ha esercitato sull’alleato mediorientale la pressione necessaria”, limitandosi ad alcuni distinguo. In un contesto che vede le prime mosse concrete da parte dei Paesi europei, dalla legge irlandese volta a tagliare il commercio coi territori occupati in Cisgiordania alla proposta di revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele, e in cui anche un alleato di ferro come la Germania inizia a mettere in dubbio i rifornimenti militari a Israele per il disastro umanitario di Gaza, una pressione diplomatica e politica americana su Netanyahu e il suo governo appare sempre più necessaria come condizione per accelerare la fine della guerra. Nella fase più critica, però, Washington sta scegliendo di non esercitare queste pressioni: da un lato, avalla il contestato piano di distribuzione degli aiuti umanitari dei contractors della Gaza Humanitarian Foundation e dall’altro rafforza l’asse diplomatico con Netanyahu in una fase di crescente isolamento internazionale del leader di Tel Aviv. Nel frattempo, tra una non-proposta di pace e l’altra c’è solo un dato di fatto: la guerra continua, e con essa la crisi umanitaria di Gaza che assume dimensioni sempre più drammatiche. E ogni giorno perso dietro proposte irrealizzabili rischia di render la situazione ancor meno sopportabile per i civili della martoriata Striscia di Gaza.

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