Gaza, 600 giorni di guerra senza limiti

A Gaza la giornata odierna segna il seicentesimo giorno di guerra dopo gli attentati del 7 ottobre 2023. Una ricorrenza che cade in un contesto di grave crisi umanitaria, di accresciuta durezza dei bombardamenti di Israele sulla Striscia e di totale paralisi di qualsiasi prospettiva diplomatica per dare alla guerra tra Tel Aviv e Hamas un indirizzo che porti a un negoziato di pace. La realtà quotidiana a Gaza parla di un conflitto di cui ad oggi è difficile immaginare una conclusione, una guerra senza limiti il cui ultimo capitolo sono stati gli spari ad opera dei contractors della Gaza Humanitarian Foundation, che Israele incarica di gestire le operazioni di soccorso, per disperdere una folla assiepatasi fuori da un centro di distribuzione di aiuti a Rafah nella giornata di ieri. Lo scontro tra Tel Aviv e le Nazioni Unite sul sistema di distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza, dopo due mesi e mezzo di sospensione degli approvvigionamenti di cibo e medicinali, è solo l’ultimo capitolo di una guerra che in 600 giorni ha cambiato profondamente il Medio Oriente e l’immagine internazionale dello Stato Ebraico e del governo di Benjamin Netanyahu. 600 giorni di guerra e le loro conseguenze Seicento giorni dopo i condannabili massacri di Hamas nel territorio dello Stato Ebraico e il rapimento di oltre 200 ostaggi da parte dei militanti del gruppo che governa Gaza, la guerra di Israele nella Striscia appare un conflitto completamente diverso da quello che la narrazione dell’esecutivo di Tel Aviv porta avanti. Israele non ha, ad oggi, raggiunto alcuno degli obiettivi dichiarati all’inizio della guerra. Hamas è stata fortemente indebolita ma non è stata smantellata come forza combattente e, al contempo, non sono stati riportati in patria tutti gli ostaggi rapiti il 7 ottobre, fatto che ha scatenato veementi proteste proseguite anche nella ricorrenza del 600esimo giorno di guerra. Le priorità di Tel Aviv sono sembrate essere fin dall’inizio altre, come dimostrato dal graduale rafforzamento dell’assedio a Gaza, dalla rottura unilaterale del cessate il fuoco di gennaio due mesi dopo la sua definizione, dal rifiuto di ritirare le truppe dalle aree di occupazione create nella Striscia e, soprattutto, dalla parallela espansione dell’Israel Defense Force in altri teatri con la creazione di zone cuscinetto in Siria e Libano. Sostanzialmente, parliamo di un’agenda espansionista che ormai ha ben poco a che vedere con le priorità originali del conflitto e che ha finito per mettere in difficoltà anche la posizione di quei Paesi che, a vario titolo, hanno sostenuto Israele nel primo anno e mezzo di guerra. I veri obiettivi di Israele “È ormai evidente che il governo israeliano è impegnato in una campagna di distruzione e trasferimento forzato della popolazione che potrebbe culminare nella pulizia etnica dei palestinesi di Gaza e nel suo parziale o totale ripopolamento da parte di ebrei israeliani”, ha scritto per Ispi Erwin van Veen, Senior Research Fellow per il Medio Oriente dell'Istituto Olandese di Relazioni Internazionali , sottolineando che il governo Netanyahu, tramite l’uso di “tattiche che vanno dalla fame, alla forza militare massiccia contro i civili, sino a una retorica disumanizzante e a metodi da “terra bruciata” per raggiungere questo obiettivo” dimostra di “ avere in programma di andare oltre quanto molti avevano sperato o ipotizzato”. L’effetto problematico causato da queste dinamiche è stato, secondo van Veen, un sostanziale sdoganamento della legge del più forte nell’ordine internazionale, rafforzando narrazioni ostili al multilateralismo in convergenza con quanto causato dall’invasione russa dell’Ucraina prima e dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca poi. Le ultime settimane hanno visto emergere il sostanziale esaurimento della pazienza di molti alleati occidentali di Israele per la condotta dell’Idf e del governo di Netanyahu: dall’Europa sono arrivate dure critiche, il presidente del governo spagnolo Pedro Sanchez ha definito Israele “Stato genocida”, il Regno Unito, la Francia e il Canada hanno condannato il piano “Carri di Gedeone” che apre all’occupazione totale di Gaza e perfino dalla Casa Bianca sono arrivati dei distinguo. Da ultimo, anche Friederich Merz, cancelliere neo-insediato di una Germania che non ha mai mancato di fornire il suo sostegno a Israele ha affermato di “non capire più quello che l’esercito israeliano sta facendo nella Striscia di Gaza, quale sia lo scopo”, sottolineando che a suo avviso “colpire la popolazione civile a tal punto, come è accaduto sempre più spesso negli ultimi giorni, non può più essere giustificato come lotta al terrorismo di Hamas”. Nel frattempo, su Netanyahu continua a pendere il mandato d’arresto per crimini di guerra spiccato dalla Corte Penale Internazionale e sembrano lontani i giorni di inizio aprile in cui il primo ministro israeliano si permetteva di arrivare impunemente in Europa, ospite dell’Ungheria di Viktor Orban che ha sfidato la Corte dell’Aja poco prima di annunciare il suo ritiro dall’organizzazione. Nuove indagini contro Israele alla Cpi Il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, sarebbe pronto a chiedere un provvedimento analogo contro i due principali alleati di Netanyahu nel governo: il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, entrambi accusati per le politiche condotte in Cisgiordania a partire dallo scoppio della guerra di Gaza. “Entrambi i ministri guidano partiti di estrema destra e sostengono fermamente il movimento per gli insediamenti in Cisgiordania”, ha sottolineato il Times of Israel, sottolineando che in particolare “Smotrich ha chiesto di intensificare la costruzione di insediamenti in risposta all'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha dato inizio alla guerra di Gaza, e di annettere totalmente la Cisgiordania”. L’estensione delle indagini della Cpi sarebbe solo l’ultimo tassello di un aumento generalizzato della pressione su Israele per la condotta seguita agli attentati del 7 ottobre. La guerra dello Stato Ebraico appare senza limiti di tempo, di proiezione geografica, di obiettivi. E nel frattempo, Netanyahu ha conseguito un indubbio risultato: ridimensionare, nuovamente, la pressione politico-mediatica per i numerosi processi in cui è coinvolto e imputato in patria. A prezzo, però, di mettere a rischio la posizione di Israele e la stessa stabilità regionale nel nome di un conflitto sempre più sanguinoso e senza regole.

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