Gaza alla fame, sale la pressione su Netanyahu

Sale la pressione internazionale su Israele il cui esercito ha lanciato sulla Striscia di Gaza allo stremo, dopo due mesi di embargo totale, l’offensiva ‘Carri di Gedeone’. A poco è servito auorizzare nella Striscia “minimi” aiuti umanitari, comunque insufficienti alle esigenze della popolazione civile allo stremo: le critiche a Tel Aviv non cessano. In particolare, contro il premier Benjamin Netanyahu è arrivata la netta presa di posizione dei leader di Canada, Francia e Regno Unito. Carney, Macron, Starmer: parole di fuoco contro Netanyahu Oggi Londra ha sospeso gli accordi commerciali con Israele e convocato l’ambasciatore, mentre già ieri In una dichiarazione congiunta, Mark Carney, Emmanuel Macron e Keir Starmer si erano detti “inorriditi” dalle mosse di Israele a Gaza, criticando l’assedio totale della Striscia, l’uso della fame come arma di guerra. Ma pur oggetto di pesanti critiche, in queste ore le forze armate isreliane procedono con all’occupazione di aree crescenti del territorio palestinese e allo sfollamento della popolazione. Il rischio di un esodo di massa forzato dei 2,1 milioni di residenti e di una crisi umanitaria senza precedenti, paragonabile per portata alla Nakba del 1948, è ormai questione di ore. Per Carney, Macron e Starmer, inoltre, il "recente annuncio secondo cui Israele consentirà l'ingresso di una quantità minima di cibo a Gaza è totalmente inadeguato" e che un cessate il fuoco è da considerare l'unica opzione credibile per porre fine alla guerra. I toni usati non hanno precedenti nelle relazioni diplomatiche tra Israele e l’Occidente. “Non resteremo a guardare mentre il governo Netanyahu persegue queste azioni atroci”, hanno ammonito i tre leader, aggiungendo che “se Israele non cessa la rinnovata offensiva militare e non revoca le restrizioni sugli aiuti umanitari, adotteremo ulteriori misure concrete in risposta", come possibili sanzioni contro Tel Aviv. La stessa ripresa dell’assistenza non ha convinto Canada, Francia e Regno Unito: nelle prime 24 ore gli aiuti entrati a Gaza erano, ha notato il Guardian, “meno del 2% delle spedizioni giornaliere prima della guerra, quando i palestinesi di Gaza erano ben nutriti e la Striscia aveva un proprio settore agricolo, una quantità che non farà alcuna differenza significativa nella crisi che ora attanaglia la maggior parte dei suoi 2,3 milioni di abitanti”. Oggi, il governo ha annunciato di aver concesso a 100 camion inviati dall’Onu di entrare nella Striscia per portare aiuti. Londra e Bruxelles si allontanano da Tel Aviv? Il premier iraeliano ha provato a rispondere all’affondo sottolineando che Londra, Ottawa e Parigi stavano “ricompensando l’attacco genocida di Hamas del 7 ottobre 2023 e aprendo la strada alla sua emulazione”, ma la presa di posizione dà l’idea che una linea rossa sul fronte politico, diplomatico e umanitario sia stato passato. Per Israele ora il rischio più concreto viene dal fronte europeo. Oltre Manica nota Politico.eu, “i Paesi Bassi hanno chiesto all'UE di rivedere la propria partnership con Israele in merito alla disastrosa situazione umanitaria a Gaza, dove più di 50.000 palestinesi sono stati uccisi e centinaia di migliaia di persone sono state spinte alla fame e alle malattie dall'attacco militare di Tel Aviv”. Nei giorni scorsi Macron ha mostrato il suo sostegno al processo di revisione, mentre sul fronte europeo è giunto anche un monito allo stop delle operazioni a Gaza da parte del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani e, soprattutto, del presidente del Governo spagnolo Pedro Sanchez, che ha definito Israele uno “Stato genocida”. Il nodo Trump Mai nella storia recente lo Stato ebraico era stato criticato con tanta durezza da Paesi che rappresentano i suoi storici partner ed alleati. In quest’ottica, resta da capire quella che sarà la posizione definitiva degli Usa di Donald Trump. Il presidente americano ha di recente dichiarato sia di essere costernato dal fatto che “molte persone stanno morendo di fame” nella Striscia sia di voler trasformare Gaza in una “zona di libertà” aprendo nuovamente al trasferimento, pur temporaneo, dei suoi abitanti durante la fase di negoziazione. Netanyahu spera che anche il suo più importante alleato non lo abbandoni, ma da tempo i sintomi di un raffreddamento delle relazioni tra Tel Aviv e Washington emergono palesi. La divergenza sul dialogo sul nucleare con l’Iran, il negoziato diretto tra Usa e Hamas per liberare gli ostaggi con cittadinanza statunitense, la scelta di Trump di saltare Israele nel suo viaggio mediorientale, da ultimo la cancellazione all’ultimo minuto del passaggio nello Stato Ebraico del vicepresidente J.D. Vance concorrono a un distanziamento politico che tradisce le aspettative di Netanyahu, desideroso di rilanciare con Trump la ferrea alleanza che li aveva uniti nel primo mandato del tycoon. Il quadro che si compone nei rapporti tra Israele e l’Occidente è dunque sempre più pieno di crepe. La consapevolezza che le politiche di Netanyahu e del suo governo nazionalista a Gaza confliggano non solo con le norme più basilari del diritto internazionale ma anche con l’interesse occidentale di stabilità per la regione mediorientale è emersa con tutta la sua forza a un anno e mezzo dagli attentati del 7 ottobre 2023. E ora porta la strategia di Israele su un terreno inesplorato nel contesto di un conflitto di cui non sembra intravedersi una vera via d’uscita.

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