Trump contro Harvard, cosa c’è dietro l’attacco alle università

Negli ultimi mesi, Donald Trump ha intensificato il suo scontro con le Università, in particolare con Harvard, trasformando l’istruzione superiore in uno dei bersagli principali della sua retorica politica. Non si tratta di un episodio isolato, ma di una mossa coerente con il trumpismo: attaccare le istituzioni percepite come “quartieri generali” dell’establishment liberal e degli intellettuali progressisti. L'attacco frontale a Harvard Andiamo con ordine, cercando l’inizio della disputa. All’origine dello scontro più recente, possiamo registrare il malcontento tra i conservatori nei confronti delle manifestazioni per la Palestina in diversi campus universitari, in cui si sono verificati anche episodi di antisemitismo. Trump ha colto subito l’occasione per rilanciare la sua guerra culturale contro il mondo accademico, accusando Harvard di essere popolata da “woke”, “idioti di sinistra radicale” e “cervelli di uccello”, solo per citare le sue ultime invettive su Truth Social. In particolare, il Presidente mette nel mirino i professori, che sarebbero in grado solo di “insegnare il fallimento” agli studenti e di preparare “futuri leader inetti”. Dalle parole ai fatti. Oltre all’attacco verbale, l’ex presidente ha minacciato di revocare l’esenzione fiscale all’università, una misura che colpirebbe direttamente il bilancio dell’istituzione e che rappresenta una minaccia concreta. “Se continueranno a promuovere odio, antisemitismo e ideologie estremiste, perché dovrebbero godere di agevolazioni fiscali pagate dai contribuenti americani?”, ha dichiarato Trump in un comizio in Florida, rilanciando il messaggio anche nei suoi interventi online. L'ideologia di Trump e i suoi nemici Questa offensiva non è soltanto una reazione agli eventi recenti, dunque alle proteste contro Israele, ma si inserisce in una più ampia strategia ideologica. Per anni, i conservatori hanno denunciato l’egemonia progressista nei campus universitari, criticando le loro politiche, con un occhio di riguardo ai programmi per la diversità e per l’inclusione. In effetti, lo scontro tra Trump e le università di alto profilo è un esempio da manuale di trumpismo. Le università, secondo questa visione, non solo rappresentano l’establishment che ha ignorato le istanze della classe media e operaia, ma sono anche luoghi di pensiero critico e libertà intellettuale, elementi che il populismo vede con sospetto. Rompono il manicheismo fortemente americano del bene e del male, lo sceriffo e il bandito, con un relativismo “insopportabile”, questo il capo di accusa. Perché Trump attacca le università? Le università sono da sempre un obiettivo di Trump. Durante la sua prima presidenza, aveva già cercato di limitare le politiche di genere nelle ammissioni universitarie. Il Dipartimento di Giustizia, sotto la sua guida, aveva avviato indagini su presunte discriminazioni contro studenti bianchi e asiatici, contestando i criteri di ammissione basati sulla diversità. Nel 2020, aveva anche firmato un ordine esecutivo che vietava la formazione sulla “diversità razziale” nelle agenzie federali, definendola “propaganda divisiva”. Secondo i dati del National Center for Education Statistics, solo il 10% dei professori universitari negli Stati Uniti si definisce conservatore, mentre il 60% si colloca su posizioni liberal o progressiste. Questa disparità alimenta da anni il sospetto dei repubblicani che il mondo accademico sia sbilanciato e, nel migliore dei casi, poco rappresentativo della nazione. Un rischio per la democrazia? “L’università è uno spazio critico, non un’estensione del governo”, ha detto Drew Faust, ex rettore di Harvard. In queste parole, è sintetizzato il rischio dell’ingerenza politica. E non vale solo per le università. È una affermazione che va estesa anche alle altre forme di espressione culturale e artistica. Se un presidente – per fare un esempio concreto – può minacciare il futuro finanziario di un’istituzione accademica per le sue posizioni ideologiche, si apre un precedente pericoloso per la libertà. Questa, in sintesi, la posizione di molti rettori, di molti professori, di molti intellettuali. Secondo un report pubblicato nel marzo 2025 dall’ “American Association of University Professors”, il 17% dei professori intervistati ha dichiarato di aver preso in considerazione seriamente l’idea di trasferirsi all’estero negli ultimi 12 mesi. Tra questi, il 9% ha già avviato pratiche concrete, come la richiesta di visti o l’accettazione di offerte da istituzioni straniere. Non ci sono ancora dati precisi, anche perché Trump si è insediato alla Casa Bianca solo pochi mesi fa, ma le università canadesi, britanniche e tedesche stanno registrando un aumento anomalo di candidature da parte di professori statunitensi con alti profili. Il rettore dell’Università di Toronto ha dichiarato: “Abbiamo ricevuto in sei mesi più richieste da docenti americani che in tutto il triennio precedente”. Siamo di fronte a una fuga di cervelli? È presto per dirlo, ma i segnali che ci sono vanno monitorati, da oggi ai prossimi mesi.

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