Mutilazioni genitali femminili: i dati sono ancora in crescita

All’inizio del 2024, in Sierra Leone, tre ragazze tra i 12 e i 17 anni sono morte dissanguate dopo aver partecipato a una cerimonia di iniziazione che prevedeva la mutilazione dei loro genitali. Questa pratica prevede la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili ed è considerata una violazione dei diritti umani. In Sierra Leone, in particolare, la procedura fa parte di un rituale di iniziazione tradizionale che segna il passaggio della vita di ragazza a quella di donna e viene eseguita dalle soweis, esponenti anziane delle società segrete Bondo, composte da sole donne. Le Ong locali stanno facendo pressione per ottenere una legge che criminalizzi questa pratica e stanno lavorando per promuovere riti di passaggio alternativi. “Ci sono molti aspetti positivi delle società Bondo”, ha spiegato al Guardian Aminata Koroma, segretaria dell’Ong Forum Against Harmful Practices. “Insegnano alle ragazze le proprietà medicinali delle piante e tramandano la storia della nostra cultura. Il nostro slogan è: 'Sì alle Bondo, no alla mutilazione”. Nel 2012, le Nazioni Unite hanno approvato all'unanimità una risoluzione per eradicare le mutilazioni genitali femminili: tuttavia, queste usanze restano ancora oggi diffuse non solo in Sierra Leone, ma in circa 30 Paesi al mondo, come dimostrano gli ultimi dati raccolti dall’Unicef. +15% negli ultimi otto anni Nonostante i progressi registrati in alcuni Paesi come Burkina Faso, Liberia ed Etiopia, il numero globale di vittime delle mutilazioni genitali femminili è aumentato di 30 milioni rispetto al 2016, principalmente in Africa, Asia e Medio Oriente. A questo si aggiunge un numero stimato tra 1 e 2 milioni di casi registrati in tutto il mondo in comunità isolate di persone migranti, tra cui alcune anche all’interno dell’Unione europea. Secondo gli ultimi dati della Commissione europea, circa 600mila donne vivono con le conseguenze delle mutilazioni genitali in Europa e 190mila bambine e ragazze rischiano di subire mutilazioni genitali in 17 Paesi europei. In media, ogni anno almeno 20mila donne, ragazze e bambine arrivano in Europa come richiedenti asilo da paesi in cui esiste il rischio di mutilazioni genitali femminili. Nel 2024, l'Unione europea ha adottato una direttiva che impone agli Stati membri di classificare le mutilazioni genitali femminili come reato specifico nei rispettivi codici penali Le mutilazioni genitali femminili non sono uguali in tutti i Paesi in cui vengono praticate: il tipo di mutilazione, l’età delle vittime e il tipo di persona che si occupa della procedura dipendono da comunità a comunità. In alcuni Paesi, le mutilazioni genitali femminili vengono eseguite nei primi giorni, settimane o anni di vita, mentre in altri avvengono durante l'adolescenza. Ogni anno, oltre 2 milioni di bambine vengono sottoposte a mutilazioni genitali femminili prima del loro quinto compleanno. Il tipo di mutilazione genitale femminile varia da Paese a Paese, ma la maggior parte delle bambine subisce la rimozione parziale o totale del cappuccio clitorideo, del clitoride e delle grandi labbra. Ogni anno, oltre mezzo milione di bambine subisce la forma più grave di mutilazione genitale femminile, l’infibulazione, che prevede il restringimento dell'orifizio vaginale con creazione di una chiusura ottenuta tagliando, riposizionando e cucendo insieme le piccole labbra o le grandi labbra, con o senza l'asportazione del clitoride. Questa usanza non prevede benefici per la salute: al contrario, tutte le forme di mutilazione genitale femminile sono associate a rischi per la salute a breve o lungo termine, che vanno dal rischio di emorragie e infezioni a difficoltà nei rapporti sessuali e rischio di morte nel parto sia per la madre sia per il neonato. Una ricerca pubblicata su Lancet l'anno scorso ha riscontrato una “scarsissima attenzione” al legame tra le conseguenze di queste mutilazioni sulla salute mentale, socio-psicologica e fisica e ha raccomandato “una maggiore attenzione alle esigenze e agli interventi di salute mentale” per le vittime. I pochi studi pubblicati sull'impatto psicosociale di queste usanze hanno rilevato che depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico e disturbi del sonno sono comuni tra le sopravvissute. Uno dei fattori principali che rende l’impatto psicologico di queste pratiche così forte è il coinvolgimento della famiglia, soprattutto quello delle madri e delle nonne delle vittime. Le mutilazioni genitali femminili sono infatti uno strumento sociale per il controllo del corpo e della sessualità femminile: chi si sottrae rischia di essere esclusa non solo dalla famiglia di appartenenza, ma dall’intera comunità. In tutti i Paesi, tranne il Sudan e l'Egitto, la maggior parte dei casi di mutilazione genitale femminile viene praticata da operatori tradizionali . Sempre più spesso, tuttavia, queste pratiche vengono eseguite dal personale sanitario e alcune comunità sembrano considerarle un modo più sicuro per continuare l'usanza, nonostante i rischi che esistono anche in ambiente ospedaliero. La medicalizzazione del fenomeno contribuisce però a diffondere l’errata convinzione che si tratti di operazioni semplici e prive di complicazioni o a rendere meno visibile il fenomeno: non è raro, infatti, che in ospedale le famiglie e il personale sostengano che la ragazza si sta sottoponendo a una procedura diversa. Eradicazione entro il 2030: un obiettivo mancato In molti Paesi, le comunità si stanno muovendo verso l'abbandono della pratica, anche se i progressi richiedono decenni. Secondo i dati dell’Unicef, i progressi più evidenti vengono da Sierra Leone, Burkina Faso, Liberia e Maldive, dove il tasso di diffusione della pratica è calato anche del 30-40% negli ultimi trent’anni. Allo stesso tempo, resistono sacche di resistenza dove non si vedono progressi: è il caso, ad esempio, della comunità somala che vive in Kenya. Se un tempo le mutilazioni genitali femminili erano molto diffuse, oggi la maggior parte del Paese ha abbandonato questa pratica . Tuttavia, tra la comunità somala, concentrata nella provincia nord-orientale del Paese, il cambiamento è stato minimo e la pratica rimane quasi universale. Secondo l’analisi dell’Unicef, esiste una sostanziale sovrapposizione tra i Paesi in cui le mutilazioni genitali femminili sono più diffuse e quelli classificati come colpiti da conflitti o che vivono una situazione di fragilità istituzionale e sociale. Questa sovrapposizione, tuttavia, rende ancora più complesso l’intervento delle ong, sia nell’ambito della prevenzione che in quello dell’assistenza alle vittime. Di questo passo, secondo le Nazioni Unite, l'obiettivo di eradicare questo fenomeno entro il 2030 è irraggiungibile con gli attuali tassi di progresso, che dovrebbero essere 27 volte più veloci per contrastare la crescita demografica nei Paesi più colpiti. Nonostante le proiezioni sconfortanti, l’agenzia sottolinea che una percentuale sempre più alta di donne e uomini si oppone alle mutilazioni genitali femminili. In totale, 400 milioni di persone - due terzi della popolazione - che vivono nei Paesi dell'Africa e del Medio Oriente in cui questa pratica è diffusa si dichiarano favorevoli alla sua eliminazione.

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