Serbia, così monta la protesta e la paura di un'escalation

Mancano pochi giorni a quella che potrebbe essere una manifestazione senza precedenti nella storia della Serbia moderna. Il conto alla rovescia è rilanciato dalle pagine Instagram gestite dagli studenti che dal primo novembre scorso, a seguito del crollo di una pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad in cui hanno perso la vita 15 persone, protestano nel Paese contro la corruzione. Sono ventenni che bloccano l’attività didattica dei principali atenei - un’autogestione permanente in alleanza con il corpo docenti - animano dibattiti e assemblee in cui sperimentano forme di democrazia diretta e soprattutto sfilano pacificamente alla testa dei cortei, sventolando bandiere, striscioni e spille con il simbolo della mano sporca di sangue. Una prima grande protesta ha avuto come teatro Belgrado, poi Novi Sad, epicentro del terremoto politico, e ancora si sono avuti cortei a sud della capitale, a Kragujevac e Niš. I raduni nazionali sempre più partecipati hanno visto di settimana in settimana aggregarsi agli universitari migliaia di cittadini di tutte le età e di tutte le professioni. Ogni giorno c’è un corteo, ogni giorno un blocco, blokada in serbo. Ogni giorno si osserva con solennità un quarto d’ora di silenzio per ricordare quelle morti che si sarebbero potute evitare, se la ristrutturazione, appaltata ad alcune ditte cinesi e affidata alla supervisione di una società ungherese, fosse stata condotta con criterio. Dentro le scuole superiori, per le vie dei centri cittadini, nei parchi, nei negozi, dove capita, si interrompe qualsiasi attività allo scoccare delle 11:52, l’ora in cui la pensilina è collassata. Si sta immobili senza parlare, un minuto per ogni “vittima del regime”, poi quando il tempo del raccoglimento è esaurito, si fa rumore, un gran rumore: c’è chi soffia armato di fischietto e chi urla “Pumpaj” , il motto della protesta che vuol dire “non fermarsi”, “continuare allo stesso ritmo”, senza pause, senza arrendersi. Più di un leitmotiv, quasi un comandamento, perché ciò che colpisce è proprio la costanza e la disciplina grazie alle quali il movimento ha potuto attraversare quattro lunghi mesi senza sfaldarsi, ma al contrario moltiplicandosi, riuscendo nel difficile “catch-all”, il “piglia tutto”, obiettivo su cui spesso si infrangono i movimenti sociali. La protesta è diventata parte della quotidianità di tanti ragazzi che non perdono un appuntamento, ma anche a catena della quotidianità di fratelli maggiori, nonni, genitori che hanno vissuto altre stagioni di dissenso nella storia di questo Paese che fu il cuore della Jugoslavia, come negli anni Novanta, quando scesero in piazza per mesi contro l’ex leader nazionalista Slobodan Milošević centinaia di migliaia di studenti. “A causa della corruzione, siamo poveri e i nostri figli travolti dai debiti. I ragazzi hanno cominciato a protestare e noi ‘vecchi’ ci siamo uniti e siamo dalla loro parte”, ci dice un ingegnere in pensione. “Questo non è un Paese democratico da tempo. Non c’è spazio per chi crede nella giustizia. Siamo qui per combattere per i nostri diritti. Come immagino la Serbia del futuro? Siamo noi”, ci dice una ragazza di 26 anni avvolta in una bandiera serba durante una protesta in piazza della Repubblica. È una piazza difficile da decifrare se si utilizzano le lenti occidentali: europeista sì, perché europei sono i valori di molti giovani. Sarebbe semplicistico però parlare di nuova Maidan, con riferimento al movimento pro-Europa in Ucraina del 2014. Si ritrova a sfilare contro il presidente anche chi non pensa che la soluzione sia l'integrazione ai 27, un processo che è del resto impantanato ormai da anni, o chi tende a guardare ad Est per affinità culturali, storiche, religiose. Una piazza sinceramente progressista, come la sua maggioranza, ma in cui trovano spazio anche gruppi di altro orientamento politico, che accusano Vučić e il suo partito conservatore SNS di alto tradimento per non mettere al primo posto l’interesse della nazione, cui è anteposto quello degli investitori stranieri che si allungano sulle opere pubbliche e le infrastrutture in cambio di mazzette. Non gli perdonano, dal loro punto di vista, di aver svenduto la “Patria” e di averla trasformata in un Far West in cui scorrazzano Cina, Russia, Paesi del Golfo e anche i vicini occidentali che stanno allargando le mire sulle miniere di litio, la cui estrazione preoccupa le comunità locali per le potenziali conseguenze ambientali e di salute. Il suo nome, quello del presidente, non è quasi mai pronunciato, è il grande non detto. La sua faccia non campeggia sugli striscioni, perché uno degli obiettivi fin dall’inizio è stato quello di non “personalizzare” la battaglia politica. Per evitare uno scontro frontale e per paura di una repressione sul nascere, certo, ma soprattutto per condannare in blocco un ordine corruttivo diffuso che si estende dai vertici ai potentati locali. Una critica severa che non risparmia neanche le opposizioni, considerate inefficaci, partiti che scendono in piazza nonostante tutto per sostenere gli studenti. “È la loro protesta, è diventata anche la nostra, noi li sosteniamo e stiamo alle loro regole“, ci ha raccontato l'esponente della minoranza parlamentare, Biljana DJordjević, il Fronte Verde di Sinistra. La Serbia oggi è uno strano laboratorio in cui è tutto nelle mani della GenZ. Non ci sono però profili da memorizzare, nomi da tenere a mente, hanno scelto di non avere volto, per non consegnare nelle mani delle autorità delle vittime sacrificali e per non cadere nel tranello del protagonismo di pochi. Uno vale uno, per davvero. Nelle facoltà autogestite le decisioni si prendono all'interno di riunioni plenarie, un modello che stanno già esportando anche fuori dalle università, e si organizzano incontri e laboratori. “Io faccio parte del dipartimento di ingegneria. Organizziamo lezioni sull’etica degli appalti, su un’urbanistica alternativa a quella proposta da questo governo. Vogliamo mettere al centro un’idea di edilizia improntata sul rispetto della collettività, perché non si ripeta quello che è accaduto a Novi Sad”, racconta una studentessa di ingegneria dell’Università di Belgrado. Il 15 marzo la Serbia che vuole dire basta all’era Vučić, un decennio di leadership incontrastata, sfilerà nella capitale dinanzi ai palazzi e alle istituzioni. Potrebbe essere la fine di questa stagione di opposizione dal basso, iniziata a novembre, come auspicano le autorità minacciando il pugno di ferro , o l’inizio di una fase nuova dai contorni ancora incerti. Certo è che la richiesta di desecretare i documenti relativi alla stazione di Novi Sad e di infliggere pene severe per le persone vicine al partito del Presidente che hanno commesso violenze nei confronti dei giovani manifestanti sono rimaste lettera morta e le autorità non danno segno di promuovere una riforma interna, neanche cosmetica. Il premier Vučević si è dimesso, ma è ancora al suo posto, e l’iter parlamentare arenato. Continuano, al contrario, a gridare al “golpe occidentale” e “alla ennesima rivoluzione colorata”, espressione utilizzata in modo dispregiativo dal presidente. Nella notte gli studenti hanno circondato la sede della RTS, la televisione pubblica: un blocco di 22 ore per “liberare l’emittente”. Momenti di tensioni che sono culminati con cariche delle forze di sicurezza contro i manifestanti. È già da giorni però che a Belgrado si fanno le prove generali della manifestazione del 15 marzo, quello che è stato definito una sorta di “riscaldamento”. Prima il grande sciopero nazionale del 7 marzo, il secondo indetto da novembre; il giorno seguente di nuovo in marcia, in occasione della Giornata dei diritti delle donne si sono unite le battaglie e gli slogan in modo “intersezionale”, mentre a Novi Beograd, la parte moderna della città, il movimento agricolo cercava di sfondare il cordone delle forze di sicurezza con una colonna di trattori che voleva raggiungere il centro storico. “Ci riproveremo il 15”, hanno già promesso gli agricoltori. Un’attesa carica di preoccupazione. Negli ultimi giorni il presidente Vučić ha lanciato messaggi chiari che si possono riassumere così: “È finito il tempo della tolleranza. Tutti coloro che parteciperanno saranno arrestati perché prevediamo violenza e incidenti”. E mentre dalle autorità arrivano parole tutt’altro che rassicuranti su quello che sarà l’esito della manifestazione e l'annuncio di una grande meeting per il 28 marzo, il Pionirski Park davanti al Parlamento si riempie di tende e di bagni chimici. Ad accamparsi nel cuore delle istituzioni sono gli “studenti che vogliono studiare”, così si definiscono come contraltare a quelli che la didattica per protesta l’hanno bloccata: giovani, quasi tutti uomini, arrivati da diverse parti della Serbia e dal nord del Kosovo, scortati da un servizio di sicurezza privato fatto da coetanei in pettorina gialla che presidiano il campo. Non rispondono alle domande dei giornalisti. I reporter sono sgraditi. Perché questo grande camping a cielo aperto? “Gli studenti che vogliono studiare” si professano contro le proteste e a favore della ripresa dell’anno accademico. Per le opposizioni però sono “studenti fake”, “scagnozzi” del presidente, “hooligan” li definiscono, chiamati per destabilizzare, per arrivare allo scontro. L’impressione che si ha quando si costeggia il parco che fu un tempo il giardino reale è quella di trovarsi davanti a un avamposto destinato a ingrandirsi nelle prossime ore. E c’è già chi sostiene che tra quelle tende si annidi il primo germe della controrivoluzione.

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