Trump vs Zelensky, un match tra scontro e imboscata

Forse in “Quei bravi ragazzi”, quando Joe Pesci dà di matto per essersi sentito chiamare lustrascarpe. Oppure nel “Padrino Parte II”, quando Al Pacino, insultato da un senatore, gli risponde “la mia offerta è questa: nulla”. Ma alla Casa Bianca, nello Studio Ovale, una scena del genere nessuno l’aveva mai vista. “Seguo la Casa Bianca dal 1996”, ha scritto Peter Baker sul New York Times: “davanti alle telecamere dello Studio Ovale non c’è mai stato un incontro come questo”. La parola chiave è “incontro”, che in italiano si usa anche per i match pugilistici. Norman Mailer, nel suo libro sulla sfida fra Muhammad Alì e George Foreman, scrive che “la prima regola di ogni dittatore è quella di rinforzare i propri errori”, una frase che mi è tornata in mente in queste ore. Sulla poltrona alla destra di chi guarda, in abito blu e cravatta rossa, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Sulla poltrona di sinistra lo sfidante, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nell’ormai iconica tenuta da battaglia. Quella della boxe, però, è una metafora che regge solo fino a un certo punto in questo caso, perché il pugilato prevede che ad affrontarsi siano in due, mentre qui le cose sono andate diversamente. Due contro uno: un pestaggio, più che un match. Tutto è iniziato in maniera convenzionale. Certo, Trump ha accolto Zelensky con una battuta sul suo abbigliamento militaresco, una battuta che aveva la chiara intenzione di stabilire chi fosse sopra e chi sotto: “Guardatelo! Si è vestito per l’occasione”. Zelensky, per chi non lo sapesse, ha promesso di tornare a indossare abiti civili solo quando la guerra sarà finita. I due si conoscono abbastanza bene da sapere di non piacersi affatto, ma la ragion di stato li ha obbligati a indossare una maschera. Trump nelle ore precedenti l’incontro ha smorzato i toni, arrivando a dire di nutrire un gran rispetto per l’alleato. Zelensky si è sperticato in lodi e ringraziamenti, elogiando un accordo – quello per la gestione congiunta delle risorse ucraine – che in realtà ha sempre considerato un’intesa sbilanciata a favore di Washington: un ricatto, per dirla in maniera brutale. Le maschere, però, possono cadere molto in fretta. “Non ha pensato fosse il caso di indossare giacca e cravatta, almeno qui?”, chiede un cronista a Zelensky. “Quando finirà la guerra lo farò”, risponde stizzito il presidente, “magari avrò un vestito come quello che indossa lei, magari più bello”. La sedia di Zelensky comincia essere scomoda. Il presidente ucraino incrocia le braccia, spazientito. Quello che sente non gli piace. Lo mettono nell’angolo, alle corde. Trump arriva a dire che è l’odio di Zelensky per Putin a impedire il raggiungimento della pace. Il leader ucraino non sa più dove guardare. È a questo punto che Vance colpisce, con una precisione sadica e raggelante. Vede il nervo scoperto e lo tocca. Se c’è qualcosa di deliberato in tutta la vicenda, probabilmente è proprio questo intervento. Siamo abituati a vedere i vicepresidenti in ruoli defilati, mentre Vance non rimane mai nell’angolo. A Monaco ha bacchettato i leader europei, a Washington ha battibeccato con il premier britannico Starmer, ora fa la morale a Zelensky. Con un presidente che - salvo clamorose sorprese - non potrà ricandidarsi, Vance è già in campagna elettorale, e certo considera la vicepresidenza un punto d’inizio, non certo una meta. È il campione del post trumpismo, più spietato e tagliente del suo capo. Come parlando a uno scolaretto, Vance si mette a elencare i pregi della diplomazia trumpiana. Zelensky fa notare che la diplomazia, finora, ha fruttato solo accordi che Putin si è divertito a stracciare. “Pensi sia rispettoso venire nello Studio Ovale e attaccare l'amministrazione che sta cercando di impedire la distruzione del tuo paese?”, chiede Vance. C’è dell’ironia nella sua incapacità di rendersi conto che se di oltraggio si tratta sta contribuendo a commetterlo. Da qui in poi si sfiora la rissa. “Rischi di scatenare la Terza Guerra Mondiale”, attacca Trump, e in tandem con Vance incalza il suo interlocutore accusando di non dire mille volte grazie a chi fornisce i mezzi per combattere. Ma un fucile non conta meno di chi lo imbraccia? E non sono gli ucraini a combattere in prima linea per l’Occidente tutto? E non è forse Putin a scherzare col fuoco della Terza Guerra Mondiale? A Trump piace rispondere, ma non gli piacciono le domande. La situazione precipita. Operatori impietosi riprendono l’ambasciatrice ucraina mentre si mette le mani nei capelli, Zelensky è pallido, le delegazioni si ritirano. Trump caccia i suoi ospiti dalla Casa Bianca . Il bilaterale salta, la conferenza stampa pure, la colazione di lavoro… Be’, non ne parliamo proprio. Gli ucraini vorrebbero continuare a negoziare, ma non c’è verso. “Zelensky non è pronto per la pace”, sentenzia Trump su Truth, e lo ribadisce mentre sta per imbarcarsi verso un week end di golf in Florida. Inutile fargli notare che la pace non è pace se sancisce la vittoria di chi la pace l’ha violata. “Il cielo è dei violenti”, come scrisse Flannery O’ Connor, seppure per altre ragioni. Zelensky annulla i suoi appuntamenti pomeridiani a Washington, ma non l’intervista con Fox News. Davanti a Brett Baier ringrazia ancora una volta gli americani, ma non sente il dovere di chiedere scusa. La sua popolarità è in calo, ma certo mettersi in ginocchio davanti a chi lo ha umiliato non lo aiuterebbe a riconquistare i cittadini dell’Ucraina. l futuro dei rapporti tra Stati Uniti e Ucraina a questo punto è un'incognita. Washington avrebbe cancellato i fondi per il sostegno all'infrastruttura energetica di Kiev e, secondo il Washington Post, valuta l'ipotesi di interrompere gli aiuti militari. L'accordo sulle risorse strategiche non è stato siglato ed è a dir poco in forse. Il tavolo allestito alla Casa Bianca per la cerimonia della firma rimane vuoto e desolato per ore. Trump e Vance, scrive la Casa Bianca, "non consentiranno mai che ci si approfitti degli americani". È così che i repubblicani interpretano quanto accaduto, e i parlamentari conservatori alimentano questa narrazione rilasciando dichiarazioni ai giornali e in tv. È la vecchia storia dei 350 miliardi di dollari americani donati all’Ucraina senza avere nulla in cambio. È una storia falsa, ma a forza di sentirla ripetere si rischia quasi di prenderla per vera. Per i democratici, invece, quella nello Studio Ovale è stata solo la violenta imboscata tesa da due bulli a un leader alleato. Qualcuno insinua che Trump vuole detronizzare Zelensky per fare un favore a Putin e facilitare la collaborazione economica tra Washington e Mosca. La fretta con cui Trump cerca la pace, che lui spiega con il desiderio di fermare il massacro, secondo alcuni è in realtà la smania di archiviare una vicenda scomoda per dedicarsi alla lucrosa partnership con Mosca. Per farlo si buttano in mare decenni di politica repubblicana, e forse secoli di ideali statunitensi. “Generazioni di patrioti americani”, ha scritto la ex repubblicana Liz Cheney, “hanno combattuto per i principi per i quali Zelenskyy sta rischiando la vita […] La storia ricorderà questo giorno, quando un presidente e un vicepresidente americani hanno abbandonato tutto ciò che rappresentiamo”. Gli aspiranti Putin di tutto il mondo, e la Cina che vede in Taiwan la propria Ucraina, potrebbero essere portati a pensare che in America c’è un nuovo sceriffo, pronto a vendere la pelle altrui per arricchire la propria. La reazione dell’elettorato resta un’incognita. L’assertiva imposizione del credo America First è stata messa in scena dal ticket presidenziale con il chiaro scopo di soddisfare gli appetiti del popolo MAGA. Ma non è detto che tutti siano disposti ad apprezzare quando accaduto. “Mentre l'abuso di Trump nei confronti di Zelensky potrebbe deliziare la folla MAGA”, ha scritto Bret Stephens sul New York Times, “è improbabile che vada a genio alla maggior parte degli elettori, incluso il quasi trenta per cento di repubblicani che, anche ora, credono sia nel nostro interesse stare dalla parte dell'Ucraina. E mentre la maggior parte degli americani potrebbe voler vedere la finire la guerra in Ucraina, quasi sicuramente non vuole vederla finire alle condizioni di Vladimir Putin”. Dopo una giornata di caos e incertezza, molti americani si sentono atterriti, esattamente come accade quando si assiste a un atto di deliberata violenza. La maggior parte delle domande resta senza risposta, e l’unica certezza è nel titolo di un vecchio pezzo dei R.E.M. “It’s the end of the world as we know it”.

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