Guerra in Sudan, Emergency: “Combattimenti sempre più vicini ma restare è un dovere"

C’è chi sceglie di vivere in mezzo alla guerra. Non stiamo parlando di chi la fa, ma di chi rinuncia alla propria sicurezza per aiutare gli altri. Sono i tanti operatori umanitari che quotidianamente lavorano per portare aiuti nei luoghi dove c’è bisogno. Anche in quelli di cui sentiamo meno parlare, come il Sudan, dove da quasi due anni va avanti una guerra civile che sta causando una delle crisi umanitarie peggiori del mondo. Il conflitto – iniziato il 15 aprile 2023 – coinvolge da una parte le Forze Armate Sudanesi , l’esercito ufficiale, e dall’altra le Rapid Support Forces , una forza paramilitare rivale. La lotta di potere tra le due fazioni, un tempo alleate, è iniziata con scontri nella capitale Khartoum e si è poi rapidamente diffusa in tutto il Paese, portando a sfollamenti di massa, pulizia etnica e violenza efferata, in particolare nel Darfur. Tra chi resta in Sudan c’è EMERGENCY, unica Ong internazionale ancora operativa a Khartoum, con un ospedale dedicato alla cardiochirurgia e un ambulatorio pediatrico. Spesso ci si dimentica che nei Paesi in guerra ci si continua ad ammalare e a morire anche di patologie “normali”, come quelle cardiovascolari. Un sistema sanitario al collasso Oggi circa 30,4 milioni di persone – oltre la metà della popolazione – hanno bisogno di assistenza umanitaria. Ma il sistema sanitario sudanese è al collasso: 1 ospedale su 3 non è più operativo. Matteo D’Alonzo è in Sudan da un anno ed è l’hospital manager del Centro Salam di cardiochirurgia di Khartoum. Si occupa della gestione dell’ospedale, dagli approvvigionamenti, all’amministrazione, fino alla sicurezza dello staff. Un compito che si fa sempre più difficile, dal momento che nelle ultime settimane gli scontri si sono avvicinati all’ospedale. “Assistiamo in prima persona all’intensificarsi dei combattimenti tra l’esercito governativo, che vuole riprendere il controllo della capitale, e le forze del RSF”, racconta D’Alonzo a Sky TG24, in collegamento da Khartoum. “Da inizio febbraio abbiamo dovuto attivare diverse volte il protocollo di sicurezza per pazienti e staff che prevede la sospensione di tutte le attività mediche e lo spostamento in aree ‘sicure’ della struttura”. “Il nostro ospedale è vicino a un ponte che sorpassa il Nilo ed è un punto strategico per i combattimenti. Anche oggi c’è stato un violento scontro tra gruppi rivali, proprio sulla sponda opposta rispetto a dove ci troviamo noi”. Scontri che piombano nel mezzo di attività quotidiane che per tanti pazienti sono fondamentali. “Poco prima era arrivata una famiglia con sospetti casi di colera. Sei bambini e due adulti. Avevamo iniziato a stabilizzarli, quando sono iniziati gli scontri e abbiamo dovuto interrompere tutto. È la procedura prevista per la salvaguardia dello staff. Abbiamo dovuto lasciare la famiglia nell’area dedicata ai casi di colera all’esterno dell’ospedale, che è comunque un’area sicura. Gli operatori sanitari, rientrati in struttura, erano agitati e in pensiero. Dopo circa tre ore, quando gli scontri si sono fermati, siamo potuti tornare fuori. Per fortuna le persone stavano ancora ricevendo le flebo e stavano bene”. Pericoli e paure La paura per i combattimenti che si verificano a così poca distanza non si può annullare. “Siamo ben segnalati e le nostre posizioni vengono condivise di continuo. Ma l’errore non possiamo prevederlo né prevenirlo”, spiega D’Alonzo. “In due occasioni, negli ultimi due mesi, abbiamo trovato schegge e frammenti all’interno del perimetro dell’ospedale”. A gennaio un’esplosione, avvenuta a meno di due chilometri di distanza dal Centro Salam, ha provocato la rottura di alcuni vetri e piastrelle nel compound dove abitano gli operatori dell’associazione. Tutto, nelle ultime settimane, è diventato più pericoloso e difficile. “Non solo per noi, ma anche e soprattutto per i civili”, sottolinea D’Alonzo. “Dentro Khartoum mancano beni primari come il cibo e l’acqua. Manca la corrente elettrica, da circa un mese e mezzo. In ospedale andiamo avanti con i generatori che per funzionare hanno bisogno di carburante. E oltre al problema del costo – parliamo di circa 3mila euro al giorno solo per il diesel dei generatori – il problema è il rifornimento”. Il problema dei rifornimenti In un Paese in guerra, dove attraversare la linea del fronte è un rischio molto alto, spostare merci e personale è una delle difficoltà più grandi. “Abbiamo sei camion fermi a circa cinque ore di viaggio nel deserto da qui, farli muovere è al momento troppo pericoloso. Fortunatamente abbiamo una riserva di cibo secco, riso, lenticchie, fagioli, farina, fave. Vista la situazione eravamo preparati, abbiamo uno stock di circa due mesi. Ma iniziano a scarseggiare alcuni farmaci e del materiale sanitario”. Tanto che al momento il Centro è stato costretto a sospendere le operazioni chirurgiche, in attesa dei rifornimenti. Casi di malnutrizione in aumento Le attività del Centro includono, oltre alla cardiochirurgia che prima dell’attuale sospensione garantiva 6 operazioni a settimana, a regime ridotto, anche un ambulatorio pediatrico dove si fanno 60 visite al giorno e le vaccinazioni. “Il personale medico che si occupa della pediatria segnala, oltre alle patologie classiche come malaria, gastroenterite e disturbi respiratori, anche un importante aumento di casi di malnutrizione. E poi tanti casi di bambini in forte stress psicologico”, continua D’Alonzo. Secondo dati OCHA, nel 2025 sono 3,2 milioni i bambini che in Sudan rischiano di soffrire di forme acute di malnutrizione, mentre la carestia si diffonde in diverse regioni del Paese. Nell’ospedale di Khartoum, a occuparsi dei pazienti sono le 400 persone che compongono lo staff. Undici gli operatori internazionali, ma la maggior parte sono sudanesi. Visto l’aggravarsi del conflitto, nelle ultime settimane l’ospedale è diventato anche un rifugio per molti di loro. “Circa 140 dipendenti sudanesi dormono in una struttura accanto all’ospedale perché è troppo pericoloso per loro tornare a casa”, racconta D’Alonzo. Oltre al Centro Salam di Khartoum, Emergency continua a gestire anche altre due cliniche pediatriche in altre zone del Paese , aperte prima della guerra, e quattro cliniche “satellite” aperte durante il conflitto. Questo perché “i malati cardiaci sono persone che spesso hanno subito tipologie di interventi che prevedono controlli negli anni. In queste cliniche a Kassala, Gedaref, Atbara è possibile assisterli senza farli spostare”. La più grande crisi di sfollati al mondo Le stime parlano di almeno 150mila morti nel conflitto, e oltre 12 milioni di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case per cercare rifugio in altre regioni del Paese o in quelli vicini, come Egitto, Ciad e Sud Sudan. È “la più grave crisi di sfollati al mondo” secondo l’Onu. “Ci sono guerre di serie A e guerre di serie B. Di questa guerra si parla poco perché sembra toccare di meno noi europei. Almeno fino a quando non ci saranno flussi migratori che partono da qui. Per ora le persone si stanno spostando soprattutto all’interno del Paese o in quelli confinanti, ma non è detto che questo non cambi”. C’è chi scappa, chi non può farlo, chi sceglie di restare. Come gli operatori umanitari di Emergency. Perché, restare? “Perché è un dovere stare qui”, è la risposta, netta, di Matteo D’Alonzo. “Per i nostri colleghi, che qui insieme a noi lavorano e hanno uno stipendio. Per i pazienti, sono migliaia ormai quelli passati di qui negli anni. E per la comunità, in generale. Rimanere sul territorio è importante: ad esempio noi al momento riusciamo a fornire acqua alle persone, perché abbiamo rubinetti aperti e funzionanti dove possono venire a prenderla liberamente”. “Stare qui non è sempre facile, la stanchezza c’è”, è la risposta alla domanda più scontata “come ci si sente”. “In alcuni momenti è utile farsi un giro in ospedale, incontrare i pazienti, soprattutto i bambini. Sembra una frase fatta, una banalità, ma è così. E poi parli con i colleghi, cerchi di capire le loro necessità e ti fai forza. A volte basta una partita di pallavolo. In quei momenti provi a dimenticartela la guerra, nonostante sia tutta intorno a te. Per mezz’ora, un’ora, te la dimentichi. Poi senti un colpo di fucile e torni alla realtà”.

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