Tra la cenere della California, Los Angeles non è perduta

“San Francisco è perduta”. Sì, lo so, sono a Los Angeles, ma già mentre guidavo verso nord, appena uscito dall’aeroporto, guardavo la striscia di fumo opaco adagiata come una nuvola sull’orizzonte, al di là del parabrezza, e pensavo a Jack London. Nel 1906 Collier’s, all’epoca un magazine straordinariamente d’avanguardia, contattò London per commissionargli un reportage sul terremoto che aveva appena devastato San Francisco. Lo scrittore, già una sorta di rockstar, non aveva voglia di guardare in faccia la morte, ma accettò per via del compenso stratosferico. Ne uscì fuori un pezzo di giornalismo con pochi rivali. “Mai nella storia una moderna città imperiale è stata così completamente distrutta. San Francisco è perduta. Non rimangono altro che ricordi e una frangia di abitazioni alla periferia”. Penso a Jack London, dunque, ma so che il paragone è audace: Los Angeles non è perduta, a differenza della sua San Francisco. In questa metropoli, che in realtà è un agglomerato di mille città completamente diverse tra loro, può capitare anche in questi giorni di ritrovarsi in un quartiere in cui l’emergenza è solo un’eco attutita. Nello stesso tempo, però, dire che Los Angeles è perduta non sarebbe del tutto infondato. Qualcosa è andato in fumo per sempre, anche alcune delle convinzioni sulle quali la città si è appoggiata negli ultimi decenni. Difficile ignorare le conseguenze concrete di questa raffica di incendi: decine di morti, migliaia di edifici distrutti, danni per miliardi e miliardi, eppure gli effetti ideali potrebbero essere destinati a durare ancora più a lungo. Quando sei prossimo a una zona d’evacuazione te ne accorgi già in albergo. Gli hotel si riempiono di cani: i padroni hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni, ma certo non potevano abbandonare i propri animali. La mattina li portano fuori tutti insieme, tenendoli al guinzaglio. Esco anche io. Direzione Pacific Palisades. Alla radio Robert Bradley canta “non dimenticherò mai il giorno in cui ho guidato nella grande L.A.”. In California è in vigore una legge che concede massima libertà ai cronisti accreditati, così riesco a oltrepassare l’imponente checkpoint allestito a Santa Monica, giusto all’ingresso della Pacific Coast Highway. Imbocco la PCH verso nord, in direzione Malibu, ma la strada che avevo percorso anni fa non sembra affatto quella su cui mi trovo ora. Sembra di correre sulla capocchia carbonizzata di un cerino appena spento. Intorno a me gli scheletri contorti di case e ristoranti fumano ancora. I pali dell’alta tensione sono piegati o divelti, i cavi trascinati a terra formano ghirigori sull’asfalto. Nei parcheggi dove fino a pochi giorni fa le tavole da surf facevano ombra ai tettucci delle auto ora stazionano le camionette della Guardia Nazionale. I vigili del fuoco sono ovunque, così come i linemen. In America si chiamano con questo nome gli operai che lavorano alle linee elettriche: nelle zone colpite da un uragano li vedi sbucare in massa da chissà dove, sui loro camioncini bianchi dotati di gru, non appena il peggio è alle spalle. Qui però il peggio non è alle spalle, si è solo spostato un po’ più in là. Dopo aver infierito sulla costa, infatti, l’incendio di Palisades si è allargato verso l’entroterra, fino a minacciare il quartiere residenziale di Brentwood. Mentre guido, una leggera patina di fumo vela la cresta delle colline alla mia destra. Solo pochi giorni fa quelle stesse colline erano punteggiate di case mobili: c’era un trailer park, qui, ma un trailer park quasi di lusso. Ora non c’è più niente. I proprietari di quelle case le avevano pagate più di un milione di dollari, e ogni mese ne spendevano circa duemila per l’affitto del terreno. Follie californiane. Sulla Pacific Highway adesso viaggiano solo soccorritori e giornalisti, così un tragitto che in tempi normali avrebbe richiesto qualche decina di minuti vola via in un lampo. Mi inerpico sulla collina che porta a Pacific Palisades e sono su Sunset Boulevard. Dopo qualche curva sono costretto a passare tra due file di auto: quelle a sinistra sono completamente carbonizzate, quelle a destra sono praticamente accatastate l’una sull’altra. Fuggendo dall’incendio tutti insieme, i loro proprietari hanno formato un ingorgo. Bloccati nel traffico e lambiti dalle fiamme, hanno abbandonato le macchine al proprio destino, scappando a piedi. Dovendo percorrere la strada in senso inverso, e dovendo farlo in fretta, i mezzi di soccorso hanno sgombrato la carreggiata penetrando tra le auto abbandonate con l’aiuto dei bulldozer. Sfruttando il solco tracciato dai mezzi pesanti arrivo in città anche io. Pacific Palisades è perduta, e stavolta è vero. Le case ancora in piedi sono una manciata, il silenzio è irreale, tutto è cenere. Mi affaccio da quel che resta di una villa che doveva essere splendida e sotto di me vedo un oceano tanto placido da sembrare insolente. Qui le fiamme hanno distrutto case da milioni di dollari, e sul web questo ha sollevato un’ondata di commenti ispirati a un populismo un po’ becero. Sono ricchi, di che si lamentano? Quando a bruciare sono i ricordi, in realtà, ricchi e poveri soffrono nello stesso modo. Per non parlare del fatto che la distruzione di un intero quartiere ha conseguenze negative non solo per chi in quel quartiere ci viveva, ma anche per chi ci lavorava. Non c’è solo Palisades, poi. L’incendio di Eaton, persino più distruttivo, ha colpito la zona di Pasadena, a est di Downtown Los Angeles. Altadena, il centro più danneggiato, sembra reduce da un bombardamento. È – o era – una cittadina residenziale benestante. Benestante, non ricca, per lo meno per gli standard di L.A. Ci arrivo in auto con un viaggio di una quarantina di minuti. Lungo il tragitto posti di blocco, camion dei pompieri, Guardia Nazionale, eccetera eccetera. Alla fine sono dentro. Il silenzio è irreale. Sembra di sentire le braci che ardono ancora sotto terra, e infatti qua e là sottili fili di fumo si alzano dai giardini abbandonati formando spirali nell’aria ferma. Come a Palisades, le case ancora in piedi sono una manciata. Il fuoco s’è mangiato la città. Inutile dire che anche un solo morto sarebbe inaccettabile, ma fatta questa premessa è spontaneo pensare che il bilancio delle vittime sia in fondo contenuto rispetto alla capacità distruttiva dimostrata dagli incendi, alimentati da venti paragonabili a quelli di un uragano in un clima quasi privo di umidità. Questa è una tragedia degli uomini, ma è anche una tragedia delle cose, e la tragedia delle cose è sempre una tragedia degli uomini che su di esse hanno lasciato la propria impronta. Nei giardini devastati giacciono tricicli anneriti, canestri da basket, sedie sghembe, barbecue piegati dalle fiamme. Comignoli e camini, costruiti in mattoni refrattari e dunque ancora in piedi, spiccano come lapidi nella città spianata dal fuoco. Jason, volto pallido e pantaloni neri, avrà quindici o sedici anni. Lo incontro davanti al cancello di quella che finora era la sua casa. Con i genitori è riuscito ad aggirare i controlli e ora è qui per verificare le condizioni del luogo in cui hanno vissuto per anni. Non ne resta quasi nulla. “Ora siamo dai nonni, ma abitano lontano”, racconta, “non so come faremo io e mia sorella: la nostra scuola è da queste parti”. Uno scoiattolo con la pelliccia annerita dalle fiamme sbuca da un cespuglio e fugge via, in preda al panico. Mentre io e Riccardo, l’operatore che mi accompagna, giriamo un po’ di immagini in giro per la città, un pick up si avvicina nella strada deserta. Ne esce fuori una famiglia di origine messicana, capitanata da un energico e baffuto signore sui sessant’anni. Si chiama Louie. Ha ottenuto l’autorizzazione per portare viveri gratuiti ai soccorritori. Mi chiede se voglio un burrito. Rispondo che ho mezzo bagel e una bottiglia d’acqua. “Allora diremo una preghiera”, risponde. Mi prende le mani, chiude gli occhi e ringrazia il Signore “nonostante l’incendio”. Io penso a quanto rapidamente tutto possa trasformarsi in nulla. Non so se sia arrogante pretendere di leggere nella mente di un maestro, ma credo ci abbia pensato anche Jack London. Qui, poi, questo è ancora più vero. In California il tutto può diventare nulla e i sogni possono trasformarsi in incubi. La California è un desiderio realizzato a dispetto di qualsiasi cosa, a volte anche del buon senso, con una sfacciataggine quasi insolente. Il risveglio in certi casi può essere traumatico. Oggi sono le idee progressiste a finire sulla croce, e mentre i repubblicani hanno buon gioco ad attaccare una roccaforte liberal, i democratici si chiedono più o meno esplicitamente se non ci sia un pizzico di fanatismo irresponsabile nell’entusiasmo con cui hanno strenuamente messo in pratica le proprie convinzioni. Nel 1988 la Proposition 103 ha sottoposto i premi delle assicurazioni sulle case al controllo della politica, con un taglio del venti per cento. Questo ha spinto diversi californiani a prendere casa in zone pericolose, dove un’assicurazione sottoposta a leggi di mercato e a un calcolo non artificioso del rischio avrebbe avuto prezzi proibitivi. In 30 anni sono state costruite circa un milione e mezzo di case in aree a rischio focolai. Non solo: l’effetto è stato anche quello di disincentivare l’installazione di presidi anti incendio nelle abitazioni. E così un’iniziativa progressista volta ad aiutare i cittadini potrebbe avere avuto l’effetto di ucciderli . Come si dice in questi casi: attento a cosa desideri, potrebbe avverarsi. L’ideale californiano della villetta con giardino, oltre ad aver creato una metropoli che si espande orizzontalmente fino a risultare ingestibile, ha contribuito ad aggravare il rischio incendi: i terreni edificabili come single-family-only, infatti, tendono a rendere pericolosamente contigue zone residenziali e zone boschive. Secondo l’Othering and belonging Institute oltre il 95 per cento delle aree residenziali della California è di questo tipo. Per i conservatori il problema non dipende solo da cosa abbia favorito la diffusone degli incendi, ma anche da come questi incendi sono stati gestiti. Il Capo dei Vigili del Fuoco di Los Angeles, Kristin Crowley, è la prima donna lesbica a ricoprire questo ruolo, e qualcuno si chiede se i democratici non abbiano considerato la diversità e l’inclusione più della competenza. Per non parlare del fatto che uno stato orgogliosamente in prima linea nel contrasto e nell’adattamento alla crisi climatica si è fatto trovare impreparato di fronte a un’ondata di incendi chiaramente legati a quella stessa crisi. Mentre guardo il fumo salire sopra il Monte Wilson, mi chiedo se non siano destinate a finire in fumo anche le velleità presidenziali del Governatore Gavin Newsom. Per quel che ho potuto sentire, qui non sono in molti ad amarlo, ma la California è una terra di cercatori d’oro, e finché c’è un fiume tutti hanno il diritto di setacciarlo. Sto per lasciare Altadena quando un dettaglio attira la mia attenzione. Nel bel mezzo di una casa distrutta c’è una sedia di metallo quasi intatta. Accanto, appoggiata sulla cenere e le macerie, una tazza azzurra senza un graffio. È come se fino a un istante prima su quella sedia fosse seduto qualcuno, come se si fosse alzato solo per un momento, come se il suo caffè fosse lì ad aspettarlo. Ho quasi l’istinto di fermarmi per vederlo tornare. Non tutto è perduto.

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