2024, fine di un lungo anno elettorale

Il 2024 in via di conclusione è stato l’anno elettorale più intenso di sempre: oltre 100 Stati e territori autonomi al voto, più di 4 miliardi di persone chiamate alle urne, in sistemi democratici così come nelle autocrazie, in una liturgia elettorale che in larga parte del mondo ha visto la grande difficoltà dei leader e dei partiti al potere uscenti. Complessivamente sono andati al voto sette dei dieci Stati più popolosi al mondo - Bangladesh, India, Indonesia, Messico, Pakistan, Russia e Stati Uniti - l'Unione Europea nelle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, diversi membri del G20 , Paesi dal valore strategico come l’Iran e Taiwan. Il lungo 2024 elettorale è iniziato il 7 gennaio con il voto in Bangladesh per il rinnovo del Parlamento, in cui la bassa affluenza ha rappresentato un campanello d’allarme per la tenuta del potere della premier Sheikh Hasina poi dimessasi ad agosto sulla scia di vaste proteste studentesche, e non è ancora finito: domenica 29 dicembre la Croazia terrà il primo turno delle presidenziali, con eventuale ballottaggio il prossimo 12 gennaio. Questo lungo anno elettorale è stato segnato, in particolare, dalle elezioni statunitensi del 5 novembre, in cui Donald Trump ha battuto Kamala Harris riconquistando la Casa Bianca al termine di una intensa campagna elettorale. E sono molte le lezioni, piccole e grandi, che si possono trarre dalle decine di consultazioni parlamentari e presidenziali tenutesi nel mondo. La difficoltà dei leader uscenti In primo luogo, i voti di quest’anno hanno segnato una difficoltà generalizzata dei leader uscenti e dei partiti al potere, in larga parte colpiti da emorragie di consensi se non da vere e proprie disfatte elettorali. Il caso del Partito Democratico americano, sconfitto nella corsa alla Casa Bianca e nella partita della Camera dei Rappresentati e del Senato dal Partito Repubblicano, è il più noto, ma non è isolato. In Regno Unito, a luglio, il Partito Conservatore ha perso il potere dopo quattordici anni di governo e i laburisti di Keir Starmer hanno vinto con un’ampia maggioranza in termini di seggi; in Francia Renaissance, il partito di Emmanuel Macron, ha subito una durissima sconfitta alle Europee e alle elezioni legislative anticipate la coalizione centrista ha perso 86 seggi; l’avanzata dell’estrema destra ha segnato la République così come la Germania, Paese in cui il cancelliere Olaf Scholz affronterà elezioni anticipate il prossimo 23 febbraio dopo la crisi del suo esecutivo associata dalla disfatta del suo Partito Socialdemocratico, dei Verdi e dei Liberali alle Europee di giugno. Anche in Paesi come India, Giappone e Sudafrica i tre partiti al potere hanno perso nettamente terreno nei voti per il rinnovo del Parlamento, e ora Narendra Modi, Shigeru Ishiba e Cyril Ramaphosa hanno dovuto costruire coalizioni per mantenere al potere, rispettivamente, il Partito Popolare Indiano, il Partito Liberaldemocratico giapponese e l’African National Congress, formazioni a lungo maggioritarie a Nuova Delhi, Tokyo e Pretoria. In molti Paesi, l’onda lunga del carovita, dell’inflazione degli anni scorsi e delle divisioni create da problematiche connesse al Covid-19 e ai suoi impatti sulle società è stata decisiva per condizionare gli esiti contro gli incumbent. Questo ha prodotto anche importanti novità, come ad esempio in un Paese quale il Botswana, dove il Botswana Democratic Party al potere dall’indipendenza ha perso per la prima volta in 58 anni le elezioni contro l’Umbrella for Democratic Change in un voto segnato da un pacifico passaggio di potere che ha consolidato la stabilità democratica dello Stato dell’Africa australe. E perfino in Iran, nella cerchia stretta dei candidati ammessi dall’alto clero sciita vicino all’ayatollah Ali Khamenei l’elezione di Masoud Pezeskhian ha portato alla presidenza un leader riformista e moderato dopo la morte, a maggio, del predecessore ultraconservatore Ebrahim Raisi, assecondando le richieste di minor repressione sui diritti civili di una parte della società della Repubblica Islamica. Dalla Romania al Mozambico, voti contesi e divisivi In diversi contesti, invece, le elezioni hanno esacerbato tensioni già esistenti o problematiche interne a Paesi altamente polarizzati. I casi più recenti riguardano due Paesi dall’indubbio curriculum democratico come Romania e Corea del Sud. Nel Paese a sud del 38esimo parallelo il voto parlamentare ha visto ad aprile l’affermazione dell’opposizione del Partito Democratico, guidato da Lee Jae-myung, che all’Assemblea Nazionale ha fortemente contestato l’agenda del presidente conservatore Yoon Suk-yeol, il quale a inizio dicembre ha usato, fallendo clamorosamente, la carta dell’imposizione della legge marziale per superare l’ostruzionismo dei rivali. In Romania, invece, la vittoria al primo turno delle presidenziali di Calin Georgescu, tribuno populista e filorusso di destra radicale che a sorpresa ha primeggiato nei consensi al voto di novembre, è stata annullata dalla Corte Costituzionale, che ha denunciato una campagna disinformatoria russa volta a favorire l’ex funzionario Onu utilizzando piattaforme social come TikTok. Bucarest tornerà al voto nel 2025 in un contesto di grande polarizzazione politica e con un’opinione pubblica divisa circa la liceità di una scelta che interroga profondamente circa la tenuta effettiva dei sistemi democratici di fronte ai tentativi di condizionamento di forze esterne. Paesi a ordinamento tutt’altro che democratico hanno visto, al contempo, i voti nazionali portare all’emersione profonde spaccature nelle loro società. Vale per il Venezuela, dove a fine luglio Nicolas Maduro ha conquistato un nuovo mandato al termine di un voto in cui le opposizioni liberali e democratiche hanno denunciato la presenza di brogli a favore del presidente socialista, così come per il Mozambico, in cui l’ennesima vittoria elettorale del partito al governo, il Frelimo, è stata accompagnata da violente proteste. Anche gli autocrati cercano il consenso In molti altri Paesi non democratici, invece, i leader hanno utilizzato lo strumento delle elezioni per legittimarsi politicamente e presentare al mondo una facciata di consenso. In Algeria e Tunisia Abdelmadjid Tebboune e Kais Seid hanno vinto con percentuali superiori all’80% a settembre; in precedenza, Ilham Aliyev era stato riconfermato in Azerbaijan col 92% dei voti, mentre Paul Kagame in Ruanda è arrivato al 99% delle preferenze. Gli autocrati hanno bisogno di voti totalmente condizionati a loro favore per presentare come frutto di un mandato popolare la loro presa sul potere per pesare il proprio consenso, cercare una forma di legittimazione chiara di fronte all’opinione pubblica internazionale, probabilmente anche per rafforzare la propria sicurezza nella gestione dei rispettivi Paesi. Le autocrazie, prive di check and balances tra poteri, hanno bisogno del termometro del consenso, nella consapevolezza che quando le cose si mettono male milioni di voti-farsa servono a poco o nulla. Lo sa bene Bashar al-Assad, che nel 2021 vantò come un simbolo dell’unità nazionale siriana il 95% conquistato alle elezioni presidenziali nel Paese, e che poche settimane fa ha visto il suo regime sgretolarsi nel giro di dieci giorni. E forse, in fin dei conti, lo sa anche Vladimir Putin, eletto per un quinto mandato con l'88% dei voti a marzo in un'elezione plebiscitaria presentata come manifestazione del consenso verso il regime di Mosca da parte di una Russia impegnata nella guerra in Ucraina e nel braccio di ferro con l'Occidente. Anche nei Paesi più distanti politicamente dall’Occidente liberaldemocratico si fa sentire la necessità di pesare i voti e di mantenere ancora vivo un simulacro di democrazia. Un fatto che dovrebbe spingere a consolidare la democrazia laddove ancora esiste ed è minacciata dalle divisioni politiche e dalla disaffezione dei cittadini, per ridare forza a un modello che, come diceva Winston Churchill, è il peggior sistema di governo, fatta eccezione per tutti gli altri. E a cui nessuno, nel mondo d’oggi, ha ancora trovato un’alternativa migliore.

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