"È sparito tutto". La storia di Pim e Riley, sopravvissute allo tsunami del 2004

26 dicembre 2004. Un terremoto di magnitudo 9.0 scuote il fondale al largo della costa nord-occidentale di Sumatra, nell'Oceano Indiano. È mattino, sono le 7.58. Il sisma è potentissimo, il terzo più forte dei precedenti sessant'anni, dopo quello registrato a Valdivia in Cile nel 1960 e quello in Alaska del 1964. In Indonesia la terra trema, gli edifici crollano e il panico si diffonde. Ma quello, purtroppo, è soltanto l'inizio. Ne segue uno tsunami di dimensioni spaventose, che diventerà una delle più grandi catastrofi naturali della storia contemporanea. Per fare un confronto, l'energia sprigionata dal maremoto del 2004 è stata un milione e mezzo di volte superiore alla potenza complessiva delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Le onde, alte fino a trenta metri, si abbattono violentemente sull'arcipelago indonesiano poi proseguono, inarrestabili, verso la Thailandia e le sue isole. In poco tempo distruggono tutto: case, villaggi, edifici, vite. Nelle ore successive, lo tsunami colpisce anche le coste di Sri Lanka, Maldive, India, Birmania, Bangladesh, fino ad arrivare anche alle Seychelles, in Somalia e in Kenya. Circa 230 mila persone muoiono, altre 20 mila risultano disperse. I feriti superano i 500 mila e gli sfollati circa 3-5 milioni. “Tutto era sparito, tutto era distrutto, restava solo qualche mucchio di mattoni”, ha raccontato a Sky Tg24 Insider Pim Thuleewan Boonyarattana, chef thailandese che all'epoca aveva 24 anni. Il 26 dicembre 2004 Pim si trovava alle isole Phi Phi, al largo della costa della Thailandia. All'arrivo della prima onda, era all'interno di un bungalow sulla spiaggia. “In quel momento ho pregato Dio di salvarmi la vita. Ero sotto shock, ma ricordo di aver avuto la sensazione che qualcuno dal cielo mi stesse 'afferrando'. Mi sono salvata salendo in un punto più alto, su una roccia”, ha detto. Oggi, Pim lavora in un ristorante Michelin in Australia e, in parallelo, porta avanti il suo progetto “The Farmer Chefs”, dedicato a tutti coloro che vivono in condizioni di vulnerabilità e sognano di diventare grandi chef. Come Pim, anche Riley Kehoe, scrittrice e speaker motivazionale statunitense che al momento della tragedia aveva solo 10 anni, è una delle sopravvissute allo tsunami del 2004. Riley stava trascorrendo le vacanze di Natale in un'isoletta della Thailandia insieme alla famiglia, quando il violento maremoto si è abbattuto sull'area. “Lo tsunami aveva distrutto quasi tutti gli edifici, non c'era acqua potabile, non c'era cibo. Quel giorno, una barca di salvataggio è venuta a recuperare i superstiti, ma noi non siamo saliti a bordo. Io e i miei genitori siamo rimasti sull'isola per un'altra settimana per aiutare le persone che avevano perso tutto”, ha spiegato a Sky Tg24 Insider. Oggi, Riley va in giro per il mondo a raccontare la sua storia e il modo in cui è riuscita a sconfiggere la paura grazie al coraggio. Il suo racconto sarà presto protagonista di un libro, dal titolo “Three Seconds of Courage”. La storia di Pim Thuleewan Boonyarattana Che cosa ricorda di quel giorno? Erano giorni di festa. Ventiquattro ore prima dello tsunami era il giorno di Natale. Avevo progettato di aprire la mia attività lì, a Phuket , volevo espandere il mio caffè. Phuket è così bella. Quel giorno andai a fare snorkeling e immersioni alle isole Phi Phi. La sera, la gente era lì che faceva ancora festa. Era tutto così bello, ma notai che era fin troppo tranquillo. Non c'erano uccelli nel cielo, non c'erano tanti pesci nell'oceano. Era troppo tranquillo, ma non ci abbiamo dato peso. Che cosa è successo dopo il terremoto e dopo l'arrivo della prima onda? Erano circa le 9.30 o le 9.45 del mattino e io sentivo la gente che urlava. Sono uscita dal bungalow di fronte alla spiaggia in cui mi trovavo per fare una passeggiata. Poi, all'improvviso, ho visto un'onda enorme proprio davanti a me. Sono rimasta scioccata, in piedi davanti alla spiaggia. Quando sei scioccato, non credi di poter scappare. Io, in quel momento, non credevo di poter scappare, perché l'onda si stava già avvicinando a me. Era così alta e, nel frattempo, sentivo le urla delle persone che mi circondavano. Ho fatto un respiro profondo e ho chiuso gli occhi. Mi sentivo morire. In quel momento, ho pregato Dio di salvarmi la vita. Ero sotto shock, ma ricordo di aver avuto la sensazione che qualcuno dal cielo mi stesse “afferrando”. Mi sono salvata salendo in un punto più alto, su una roccia. Non riuscivo a capire come avessi fatto ad andare lì sopra, perché solo pochi attimi prima mi trovavo sulla spiaggia... Dopo la prima onda, ne è seguita una seconda... La seconda è stata abbastanza spaventosa. Sono corsa dal punto in cui mi trovavo cercando di raggiungere un luogo più sicuro, in alto, sulla collina. Vedevo le persone ferite e insanguinate. Sentivo la gente che urlava e piangeva, mentre i tetti delle abitazioni erano spariti nel mare. Tutto era sparito, tutto era distrutto. Restava solo qualche mucchio di mattoni. Quando sono scesa dalla collina, molte persone erano fuggite, molte avevano preso le proprie cose, ritirato i soldi dal bancomat, mandato messaggi. Ricordo di aver trovato una statua di Maria con Gesù Bambino che spuntava da sotto la sabbia. L'ho presa. È stato come se quella statua mi avesse dato l'ispirazione: sentivo di non poter lasciare quel luogo perché tantissime persone stavano soffrendo, stavano chiedendo aiuto. Da quel momento, ho scordato tutte le mie paure. Che cosa ha provato? Sentivo solo di avere una missione: dovevo aiutare le persone. Non avevo paura dell'onda che rimbombava ancora là fuori, non avevo paura di morire. Avevo solo tanta forza. Sentivo che non potevo abbandonare la gente intorno a me, non potevo lasciarla piangere e soffrire. Dovevo aiutare. C'era chi soffriva per una gamba rotta, chi chiedeva aiuto, chi soffocava, chi non poteva muoversi. Io ho solo potuto fare del mio meglio, aiutando le persone a salire verso la collina per mettersi al sicuro. Alle isole Phi Phi, ha aiutato diversi feriti a salire su un elicottero per essere salvati. Le va di ripercorrere quel momento? Sì, certo. Il pomeriggio dopo lo tsunami non abbiamo potuto fare molto, se non portare al sicuro quante più persone possibili. Il giorno dopo, abbiamo sentito arrivare un elicottero . Ci sembrava che fosse arrivato qualcuno dal cielo. Ci siamo riuniti sulla riva del mare. Ho avvolto una maglietta bianca attorno a un bastone di legno e l'ho sventolata come una bandiera. “Siamo qui a chiedere aiuto”. L'elicottero voleva atterrare, così sono corsa vicino a un campo da tennis, un posto abbastanza grande e vuoto per l'atterraggio. Quando il generale di comando è saltato giù dall'elicottero, è iniziata la nostra missione. Gli ho detto che c'erano molti sopravvissuti su quell'isola e che avevano bisogno di aiuto. È stato quello il momento in cui abbiamo realizzato che eravamo sopravvissuti. Qual è stata la difficoltà più grande che ricorda di quel 26 dicembre? È stato tutto molto difficile perché mi trovavo in una fase di grande trauma. Vedevo le cose con occhi molto diversi dagli altri. Quando sono tornata a Phuket, nei giorni successivi allo tsunami, non sono riuscita a dormire. C'era odore di morte attorno a me. Poi, la vigilia di Capodanno sono tornata al municipio e ho parlato con il coordinatore del centro di soccorso thailandese. Gli ho detto che non riuscivo a dormire e che sarei dovuta tornare alle isole Phi Phi. Dovevo tornare lì, pregare per tutte quelle persone. Lui mi ha risposto che a nessuna barca era permesso viaggiare in mare, per timore che potesse succedere ancora qualcosa. Io ho insistito e, una volta arrivata a Phi Phi, mi sono diretta sul punto panoramico dell'isola, ho chiuso gli occhi e ho pregato per tutti. In quel momento, è stato come se il cielo si fosse aperto davanti ai miei occhi e Dio avesse accolto tutte quelle anime. Da lì in poi, pace. In quell'attimo ho capito che avevo portato a termine la mia missione: aiutare le vittime a trovare in cielo la pace. Qual è il ricordo più vivido che conserva di quel giorno? Dopo lo tsunami ho tentato il suicidio e sono stata vittima di un'incidente stradale. Un'auto mi ha travolta e ho sbattuto violentemente la testa. Non sono morta, ma ho perso la memoria per un lungo periodo. Per sette anni, ho dimenticato l'immagine dello tsunami e tutto il resto. Per sette anni, ho vissuto una nuova vita, da sola in montagna, mi sono allontanata da tutti. Poi sono tornata a Phuket e la memoria lentamente è tornata. Dopo sette anni, ho iniziato a ricordare tutto, dall'inizio alla fine. Mi ci sono voluti vent'anni per rendermi conto che Dio mi aveva scelta per aiutare le vittime. Dio mi ha dato il dono di pregare per loro. Com'è la sua vita adesso? Attualmente lavoro in Australia come executive chef in un ristorante di alta cucina Michelin. Mi sono realizzata e ho viaggiato per il mondo. Ho portato a termine anche il mio progetto "The Farmer Chefs", concretizzando il mio desiderio di creare una scuola per chef e insegnare l'arte della cucina ai bambini e alle bambine che vivono in situazioni di povertà. Il mio lavoro è una sfida. Oggi sono felice di preparare cibo per le persone. Per me è più di un lavoro, è una grande passione. Qual è l'obiettivo del suo progetto “The Farmer Chefs”? L'obiettivo del progetto è l'idea di impegnarmi a vivere questa vita su questa terra. Non volevo pensare di essere inutile, volevo fare qualcosa per la gente. Volevo, ancora una volta, aiutare le persone. La storia di Riley Kehoe Lei è sopravvissuta allo tsunami a soli 10 anni. Che cosa ricorda di quel giorno? Avevo solo 10 anni nel 2004 quando è avvenuto lo tsunami. Io mi trovavo in Thailandia con la mia famiglia per fare visita a mio nonno, che all'epoca trascorreva diversi mesi dell'anno lì. Amava l'estate e desiderava sempre il sole. Mi trovavo in Thailandia anche perché la mia famiglia amava fare missioni di volontariato e, anche quella volta, abbiamo lavorato per qualche settimana in un orfanotrofio locale. Durante le vacanze di Natale, mio nonno ha prenotato una vacanza per tutta la famiglia in un'isoletta. In Thailandia ci sono centinaia di isole bellissime, con palme dappertutto, grandi scogliere, acqua cristallina. Io e la mia famiglia ci siamo imbarcati verso su una di queste isole. Era tutto così bello. Che cosa è successo dopo il terremoto? Stavo dormendo ed era mattino presto. All'improvviso mi sono svegliata perché tutto intorno tremava. Ingenuamente ho guardato sotto il letto perché pensavo che le mie sorelle mi stessero facendo uno scherzo scuotendo il materasso. Sotto il letto non c'era nessuno. Era la terra che stava tremando. Dalla reception dell'hotel ci hanno detto era “soltanto un terremoto”, che non dovevamo preoccuparci e che potevamo continuare a goderci la nostra giornata. Ricordo un'assurda coincidenza: inizialmente, dovevamo soggiornare in uno dei bungalow sulla spiaggia, ma l'hotel aveva fatto un errore nella prenotazione e ci aveva assegnato un appartamento in un edificio di cemento, lontano dalla costa. Era una splendida giornata di sole. Dopo aver fatto colazione e snorkeling, siamo tornati verso il nostro appartameno. Ricordo di aver notato, in quel momento, una cosa particolare: scimmie, cani, uccelli, che fino al giorno prima avevano animato l'isola, non c'erano più. Erano spariti. Poi ho sentito le urla della gente e, sulla spiaggia, ho visto che l'acqua se n'era andata, si era prosciugata così in fretta che i pesci stavano saltando dappertutto. All'orizzonte ho intravisto una sottile linea bianca, che diventava sempre più grande ogni secondo che passava. Che cosa avete fatto dopo aver visto lo tsunami? Lo tsunami si stava dirigendo verso la nostra isola a velocità sostenuta. Mia madre aveva già capito tutto. È sempre stata una donna forte e sicura di sé, ma quel giorno ho visto tanta paura sul suo volto. Si è rivolta a me e alle mie sorelle urlando: “Correte, correte!”. Abbiamo iniziato a correre dall'altra parte dell'isola. Ma c'è un dettaglio di quel momento che non dimenticherò mai... Le va di raccontarlo? C'era un uomo su una barca al largo. Dopo aver visto lo tsunami, è sceso dalla barca e ha iniziato a correre verso la riva, che nel frattempo si era prosciugata. Stava cercando di raggiungere un'altura per mettersi in salvo. Poi all'improvviso si è fermato. Probabilmente si è reso conto che non ce l'avrebbe fatta perché l'onda era davvero molto vicina a lui. Allora è tornato indietro, verso la sua barca. E poco dopo l'onda lo ha annientato. Lui e la barca sono andati in mille pezzi. Ho visto il suo corpo, il suo sangue... È stato in quel momento che ho capito che sarei potuta morire quel giorno stesso. Come siete riusciti a mettervi in salvo? Il giorno prima, io e la mia famiglia ci eravamo persi e, per puro caso, avevamo trovato un sentiero su una delle scogliere. Per scappare dallo tsunami, abbiamo imboccato quella strada sterrata. Nel frattempo, l'onda uccideva una persona dopo l'altra. Era enorme, potentissima. Tutta la mia famiglia correva più veloce che poteva, mentre lo tsunami si avvicinava sempre di più. C'è stato un momento in cui lo tsunami era vicino di pochissimi metri, la morte era vicina di pochissimi metri. Siamo riusciti a metterci in salvo sulla cima di un dirupo. Una volta arrivati in alto, mi sono inginocchiata e ho pregato. Lì, ho sentito la pace avvolgermi. In che modo la sua storia ha plasmato il suo modo di concepire la vita e, in particolare, il coraggio? Il giorno dopo la tragedia, abbiamo scoperto che tutti i membri della mia famiglia erano salvi, contro ogni aspettativa. Ognuno aveva preso strade diverse, ma tutti erano vivi. Ricordo che ci sentivamo come degli zombie, come se quello che era successo non fosse davvero accaduto a noi. Lo tsunami aveva distrutto quasi tutti gli edifici, non c'era acqua potabile, non c'era cibo. Quel giorno, una barca di salvataggio è venuta a recuperare i superstiti, ma noi non siamo saliti a bordo. I miei genitori hanno deciso di rimanere sull'isola per un'altra settimana, con poca acqua e una manciata di riso da mangiare, per aiutare le persone che avevano perso tutto. In quel momento ho capito l'importanza di scegliere, di avere il coraggio di prendersi cura degli altri, nonostante la paura. Il bisogno di aiutare è più forte della paura. Questo mi ha davvero cambiata, ma non è stato l'unico momento... Qual è stato l'altro momento? È successo sei mesi dopo lo tsunami. Ero terrorizzata dall'oceano perché, nel mio caso, era stato proprio l'oceano a causare pericolo, devastazione e morte, a uccidere centinaia di persone. Io volevo starne alla larga il più possibile. Ma i miei genitori, sei mesi dopo la tragedia, hanno iscritto me e le mie sorelle a un corso per bagnini da spiaggia. Volevano insegnarci che solo affrontando le paure, queste avrebbero avuto meno potere su di noi. Ricordo le parole di mio padre: “Riley, nella vita stai combattendo una battaglia tra il coraggio e la paura, e tutto ciò di cui hai bisogno è un po' più di coraggio”. Quelle parole sono state come un'eco nella mia vita: posso anche trovarmi in un momento di paura, ma scelgo sempre di affrontarla e di avere coraggio. Oggi, per assurdo, la cosa che amo fare di più al mondo è il surf! Nell'introduzione di “Three Seconds of Courage”, lei scrive che “la Riley sedicenne sarebbe sorpresa di sapere che oggi non ha più paura”. Quanto tempo ci è voluto per trasformare la paura della tragedia che ha vissuto in coraggio? Penso che tutti noi abbiamo vissuto o vivremo i nostri “tsunami”. Io ho vissuto qualcosa di così traumatico, duro e inaspettato, ma tutti noi affrontiamo delle difficoltà a un certo punto della nostra vita. Per questo motivo, vorrei incoraggiare le persone che hanno vissuto il proprio “tsunami” a capire che va tutto bene, ci vuole tempo. Quando sono sopravvissuta nel 2004, non avevo le risorse, le capacità e l'intelligenza emotiva per elaborare il trauma che avevo appena vissuto. Mi sono serviti diversi anni per elaborarlo. A 22 anni ho intrapreso un percorso con una terapeuta che mi ha permesso di ripercorrere la mia storia. Guarire richiede tempo. Che cosa direbbe a chi vive in una situazione di paura? Esiste il termine “stress post-traumatico”, ma esiste anche il termine “crescita post-traumatica”. Alcuni studi di scienziati e psicologi rivelano che le persone che vivono qualcosa di veramente traumatico possono “crescere” o “non crescere”. La differenza tra questi due tipi di persone è che quelle che crescono, spesso, hanno vicino qualcuno di cui si fidano, qualcuno che non sminuisce il loro dolore, che cammina al loro fianco. Voglio incoraggiare chi sta attraversando un momento difficile e traumatico a circondarsi di persone fidate. Durante i mesi di terapia, ogni settimana una mia amica veniva a trovarmi e mi regalava sempre una scatola di cioccolatini. Ci sedevamo lì, a volte mi chiedeva come andava la terapia, altre volte guardavamo un film, mangiavamo i cioccolatini e ridevamo insieme. Lei era semplicemente lì per me. Se non ci uniamo alle persone anche nelle loro tempeste e nel loro caos, allora non apprezzeremo mai i raggi di sole e gli arcobaleni della loro vita. Un piccolo atto di coraggio che ha avuto un grande impatto nella sua vita. A 22 anni mi sono resa conto che l'evento dello tsunami aveva ancora un forte impatto sulla mia vita e che portavo dentro di me ancora molto dolore. Così, sono andata da una terapeuta dell'università e le ho detto: “Ho bisogno di aiuto”. È una frase così semplice, ma ci vuole molto coraggio per ammetterlo. È stata una delle decisioni migliori che abbia mai preso nella mia vita. Riuscire a dire una semplice frase come “ho bisogno di aiuto” e avere accanto qualcuno che vi prende per mano, può davvero fare la differenza.

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