A cosa serve conoscere il modo in cui funzionano i dati nell’era Trump

“La consapevolezza di come funziona la scienza dei dati crea potere”, sostiene Lauren F. Klein, co-autrice del libro Data Feminism e direttrice del Digital Humanities Lab all'Emory University, "ma solo se le persone comprendono come i dati vengono raccolti, utilizzati e interpretati". Nella settimana in cui sono usciti i dati Ocse che mettono l'Italia in fondo alla classifica dei paesi analizzati per comprensione del testo e per la numeracy, cioè la capacità di fare calcoli e leggere dati e grafici, questa affermazione è ancora più rilevante. L’abbiamo incontrata alla Casa Internazionale delle Donne di Roma in occasione dell’evento organizzato da Period Think Tank, The Good Lobby e Prime Minister e le abbiamo chiesto che importanza ha oggi insegnare data literacy con un approccio femminista nell’era dell’intelligenza artificiale, dove tutto diventa dato. “Credo che sia molto importante ricordare che i dati non sono mai neutrali e non sono mai oggettivi. Sono sempre progettati, raccolti e utilizzati da persone con obiettivi specifici”, sostiene Klein. È il 2020 quando insieme a Catherine D'Ignazio, docente al dipartimento di Urban Studies and Planning del MIT, pubblica il libro "Data feminism", oggi disponibile in formato gratuito e aperto sul sito della casa editrice MIT Press, come critica alla scienza dei dati e come un insieme di esempi a cui ispirarsi per cambiare il modo in cui dati vengono usati per rappresentare le persone marginalizzate. Per le autrici “il femminismo dei dati” è un modo di pensare ai dati, ai loro utilizzi e ai loro limiti, “informati dall’esperienza diretta, da un impegno all’azione e dal pensiero del femminismo intersezionale”. In pratica, vuol dire comprendere come nel corso degli anni la scienza dei dati e la statistica hanno escluso persone che non fossero bianche e di sesso maschile, e questo ha prodotto una tecnologia ma anche tassonomie statistiche che rispecchiano una società privilegiata. Durante l'incontro alla Casa Internazionale delle Donne, Klein è stata ospite di una tavola rotonda insieme a Sarah Williams, direttrice del Civic Data Design Lab al MIT, autrice del libro Data Action , che ha cominciato il suo intervento spiegando che “interrogarsi sulle questioni per cui siamo i dati deve partire dal principio “do no harm”, non nuocere, non fare del male o fare danni”. Il problema è se questo approccio viene preso davvero in considerazione da chi ha il potere, anche economico e tecnologico, di raccogliere dati, cioè enti pubblici e aziende private. Per Williams i dati che non nuociono sono quelli che includono le persone rappresentate nel processo di raccolta dati: a Nairobi, in Kenya, ha contribuito a sviluppare un'applicazione per produrre dati sulla mobilità urbana collaborando con i proprietari e i conducenti dei "matatu", i bus tradizionali, mappando l'intera rete. Qui i dati sono diventati davvero un bene pubblico, al servizio sia dell'amministrazione cittadina che delle persone che vivono la quotidianità di Nairobi e degli stessi autisti, i protagonisti della mappatura. Nel libro Data Feminism le autrici parlano dell’importanza di raccogliere contro-dati dal basso, anche dando priorità a forme di conoscenza indigena, locale e basata sull’esperienza come ha fatto Williams in Kenya. Per “sfidare il potere” - è uno dei sette principi del femminismo dei dati - e colmare i gap che inevitabilmente si creano nelle statistiche ufficiali. Per Klein e per Williams è fondamentale che una parte del potere di produzione dei dati resti in mano ai cittadini. In Italia discutiamo spesso della carenza di statistiche disaggregate per valutare l’impatto delle politiche pubbliche sulle donne, è parte dello stesso lavoro di un think tank come Period, ma chiedere i dati non è sempre la scelta migliore, secondo Klein, perché “i dati sono sempre progettati, raccolti e utilizzati da persone con obiettivi specifici”. E oggi, nell’America che torna nelle mani di Donald Trump dopo quattro anni, non è un mistero che il programma politico dei conservatori delineato nel documento del Project 2025 si vogliono usare i dati per rinominare, se non proprio cancellare dalle politiche pubbliche parole come “orientamento sessuale e identità di genere, diversità, equità e inclusione, uguaglianza di genere, equità di genere, consapevolezza di genere, sensibilità di genere, aborto, salute riproduttiva, diritti riproduttivi e qualsiasi altro termine utilizzato per privare gli americani dei loro diritti del Primo Emendamento”. Che impatto ha questo sul lavoro di chi analizza il modo in cui il potere usa e produce dati sulla popolazione? Klein mette in guardia contro l’uso dei dati come strumento di controllo, evidenziando che “quando non si comprende come i dati vengono raccolti e interpretati, è facile che vengano utilizzati contro i cittadini stessi". Una consapevolezza diffusa su questi meccanismi è quindi cruciale per proteggere i diritti individuali e collettivi. “È davvero importante chiedersi: chi ha raccolto questi dati? Per chi sono stati raccolti? Quali interessi servono e per quali obiettivi vengono impiegati?”, aggiunge Klein, riprendendo le domande che guidano lettori e lettrici lungo tutto il libro Data Feminism. Ma se, come ci dice l’Ocse, oltre un terzo della popolazione adulta italiana è in grado di fare solo calcoli di base, come si può rendere i dati una materia non solo comprensibile ma uno strumento di cittadinanza attiva? Klein suggerisce un approccio inclusivo e interconnesso, dove la comprensione dei dati non sia un esercizio tecnico riservato a pochi, ma una competenza diffusa, integrata nell'istruzione e promossa attraverso il coinvolgimento delle comunità. “Le lotte per la consapevolezza sui dati non sono isolate, ma intrecciate a quelle per i diritti e l'autonomia dei cittadini”, afferma. Una scarsa alfabetizzazione ai dati ci rende infatti vulnerabili a chi manipola l’informazione per fini politici o economici. "I dati sono molto potenti", aggiunge ancora Klein, "e il modo in cui vengono utilizzati può essere determinante per le politiche pubbliche e per la protezione dei diritti fondamentali."

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