Rogo in discoteca a Murcia, identificati 5 corpi su 13: per gli altri servirà test del Dna
MondoI parenti delle vittime stanno consegnando alla polizia forense spagnola alcuni oggetti personali dei loro cari come rasoi, spazzolini da denti, pettini, per poter dare un nome ai cadaveri. Il dolore della comunità sudamericana: "Eravamo venuti in Spagna per dare un futuro ai nostri figli"
Sono giorni di angoscia a Murcia, dove, dopo il rogo nella discoteca avvenuto all'alba di domenica, sono solo cinque i cadaveri già identificati dei tredici - è il bilancio definitivo - estratti dalle macerie. Per dare un nome alle altre vittime servirà il test del Dna: i parenti stanno infatti consegnando alla polizia forense alcuni oggetti personali dei loro cari, come rasoi, spazzolini da denti, pettini. Dopo un'altalena di cifre, il prefetto di Murcia Francisco Jimenez ieri ha reso noto che è stata ritrovata l'ultima persona scomparsa dalle prime ore di domenica mattina: localizzato dai suoi parenti, si trova in buone condizioni. Intanto le autorità del comune del Comune di Murcia hanno comunicato che nel 2022 la discoteca aveva ricevuto l'ordine di chiudere per una serie di irregolarità.
Le lacrime della comunità latinoamericana
"Siamo emigranti, siamo venuti in Spagna per dare un futuro a noi e ai nostri figli. Non doveva finire così. Ora il mondo ci è caduto addosso". Non ha più lacrime Miriam, una signora nicaraguense di 62 anni, trasferita a Murcia 15 anni fa. Quarantotto ore fa l'incendio nelle discoteche le ha portato via tre familiari: due nipoti e una cognata. Accanto a lei, davanti al Palasport che sta ospitando i parenti delle vittime, racconta l'Ansa, pregano a bassa voce tanti altri latinoamericani. La loro è la comunità più colpita dalla strage. "Tutti noi siamo stati tantissime volte alla Fonda, siamo sconvolti", commenta un ragazzo colombiano, con in mano un palloncino bianco e sul braccio un piccolo nastro nero in segno di lutto. Per tutti loro quella discoteca maledetta non era solo un luogo di svago come tanti altri, ma un pezzo della loro vita, della loro identità. "Conoscevamo bene il proprietario - prosegue il ragazzo - è un colombiano come me, come chi lavorava là. Alcuni di loro non ci sono più. Ci hanno accolti dal primo momento che siamo arrivati qui. Per noi quel posto era un po' una seconda casa, come essere nel nostro Paese. Sono qui per sentirci tutti uniti, sentirci fratelli, per aiutare chi ha perso persone care", conclude in lacrime.