Giornata della Memoria, Bruck: "La nostra testimonianza resterà"

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Liliana Faccioli Pintozzi

Liliana Faccioli Pintozzi

l'intervista alla sopravvissuta che racconta il momento in cui è riuscita a preservare la sua umanità di fronte ai campi di sterminio, alla Shoah, a quell’orrore indicibile che deve essere raccontato, deve essere ricordato, deve essere interiorizzato. Affinché non si ripeta mai più 

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Spogliarsi davanti a un soldato, e per la prima volta dopo tanto tempo vergognarsi della propria nudità. È stato questo, per Edith Bruck, il momento in cui qualcosa si è rotto. E l’umanità è tornata a farsi strada dentro di lei. Il soldato era americano; la Liberazione stava avvenendo, era avvenuta; “è stato un momento di follia, con urla, pianti, svenimenti. Un momento di pazzia, non capivamo quasi niente”.

In quel momento, da numero 11152 lei ritorna Edith; da deportata diventa una sopravvissuta. Ai campi di sterminio, alla Shoah, a quell’orrore indicibile che deve essere raccontato, deve essere ricordato, deve essere interiorizzato. Affinché non si ripeta mai più (GIORNATA DELLA MEMORIA, LO SPECIALE DI SKY TG24 - LA PRIMA INTERVISTA DI EDITH BRUCK A SKY TG24).

 

La vergogna; la capacità di piangere, ancora e sempre; il rifiuto di odiare, di vendicarsi, di denunciare perché “non si poteva cominciare dopo un orrore del genere con altro orrore”; lo sgomento davanti a quello che l’uomo può fare all’uomo, “è quello che faceva secondo me forse più male”; la volontà, costante e ferrea, di “dare da mangiare solo al bene” che c’è dentro di te; la scelta di vivere in Italia nonostante il fascismo e le leggi razziali “a Napoli mi sono sentita abbracciata, ho pensato "posso vivere in questo paese”; la fede in Dio, e quella nell’uomo; il rapporto con Papa Francesco che “è venuto da me per chiedere perdono per il popolo ebraico martire, ha fatto in pubblico quello che gli altri Papi hanno fatto in Sinagoga. Mi ha fatto un gran bene e spero di averlo fatto io a lui. Ci vogliamo bene”; la fiducia nelle prossime generazioni, perché “le nostre parole, i nostri scritti, le nostre urla non sono stati vani”. Il ricordo, la testimonianza, il passaggio di testimone.

 

Ascoltare Edith Bruck vuol dire entrare in uno spazio senza tempo, quel tempo che nei campi “non passava mai, si dilatava, pesava sulle spalle” nella costante paura di morire, nella costante attesa di morire. La sua voce è bassa, ma potente. I suoi occhi liquidi, ma penetranti. È una piccola donna di ferro, che ha scelto di scrivere come “terapia”, quando nessuno voleva sentire i suoi racconti perché “in fondo eravamo solo avanzi di vita” mentre “la carta sopporta tutto”; che ha scelto di parlare per passare il testimone dell’orrore e della salvezza: “bisogna farlo, dice, sia per dovere morale sia perché i ragazzi devono sapere. Hanno bisogno di sapere. Ascoltano, e vogliono sapere. E spesso piangono insieme a me”.

Ascoltare Edith Bruck vuol dire fare un passo in più; e dare concretezza alla sua fiducia quando ci dice “qualcosa resterà, resterà, resterà”.

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