Su 40 milioni di abitanti 3,5 milioni abusano di sostanze stupefacenti: questo è il dato dal primo Paese produttore di oppio al mondo secondo il direttore dell'ospedale Jandalak. I talebani hanno annunciato un programma per eradicare le coltivazioni di papavero e promuovere la disintossicazione di massa. Anche se per ora i risultati sono deludenti
"No, non rilascio interviste per motivi di sicurezza". Mohammad Daoud Jaihon, il direttore dell’ospedale Jandalak a est di Kabul, un'eccellenza nel recupero dei tossicodipendenti, sorride bonario anche se è molto diffidente nei confronti della troupe internazionale. L’ingresso è un bel giardino molto curato, come da tradizione afgana, in cui spiccano le caratteristiche rose innestate con l’ibiscus. Più in là, sulle panchine, alcuni uomini prendono il fresco all’ombra di un salice piangente con aria stanca.
Una piaga nazionale
Il direttore non ci dice neanche il nome e con un inglese approssimativo si presenta a noi chiedendoci sospettoso perché siamo lì. In effetti lo sa benissimo, visto che per avere il via libera del ministero ad accedere alla struttura, una sorta di gioiello della sanità afgana, sono state necessarie almeno tre ore di adempimenti burocratici. E così ci fa accomodare nel suo ufficio, ci offre il tè e – nel pieno rispetto del protocollo locale – si presenta, chiede chi siamo, cosa facciamo, cosa vogliamo sapere. Gli diciamo che, siccome il suo ospedale è un’eccellenza nel recupero dei tossicodipendenti, vogliamo descrivere questa esperienza. Così lui si rilassa. I dati che ci fornisce sono drammatici: 3,5 milioni di tossicodipendenti in unPaese di 40 milioni di abitanti. Cifre approssimative, ammette, e purtroppo in crescita a causa delle difficoltà in cui versa lo Stato. "Tutta colpa di 40 anni di guerra", conclude.
Sì, certo, replichiamo. Ma anche il fatto che l’Afghanistan, da più di 20 anni, abbia superato il triangolo d’oro nella produzione di oppio non aiuta. "Certo", ammette lui "Ma anche voi avete molti tossicodipendenti. E potete fumare, bere alcol, fare tutto quello che volete. Perché anche voi ne avete?" Bella domanda. Anche se noi – chiariamo – non abbiamo intenzione di denigrare l'Afghanistan ma solo di descrivere quel che succede.
L'ospedale lager
Il dottor Mohammad Daoud Jaihon ci mostra la struttura. Il percorso è articolato in tre fasi: pretrattamento, disintossicazione e riabilitazione, reinserimento nella società. Per vincere la dipendenza ci vogliono due settimane, poi 45 giorni per la riabilitazione. I primi due step non è più possibile attuarli a causa della mancanza di fondi. Stesso motivo per cui i dipendenti del complesso non hanno percepito lo stipendio per sei mesi. Ma i talebani hanno annunciato programmi ambiziosi, facciamo notare. Il medico prosegue il tour e non risponde. Ci mostra le stanze sovraffollate, dove dormono tra le 16 e le 18 persone, tutte stipate sui letti a castello che costituiscono una sorta di labirinto, e tutte con una divisa verde. Alcuni di loro invece l’hanno blu, con una fascia al braccio: sono i disintossicati che aiutano i compagni in difficoltà. Assistiamo a un litigio tra pazienti e al modo brusco con cui viene sedata la potenziale rissa. Benché le stanze siano pulite e ordinate – nei limiti del ragionevole, data la densità abitativa – non si può cancellare l’impressione di essere in un lager. Le finestre hanno le sbarre, non è possibile uscire e gli uomini in blu sembrano dei kapò. Eppure, ci tiene a sottolineare il dottor Jahion, qui si entra solo volontariamente: non è stato ancora avviato il programma di disintossicazione forzata. Ma da quali sostanze sono dipendenti? "Certo, l’oppio la fa da padrone", ci spiega, "ma ci sono anche molti poliassuntori". Non si sbilancia, e soprattutto l’argomento è scivoloso. Perché sì, anche tra i talebani la droga è diffusa, e tra i pazienti forse ce n’è anche qualcuno.
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Oppio, tramadolo e Captagon
In questi casi si tratta di tramadolo e di Captagon, la droga degli jihadisti, un’amfetamina che toglie la stanchezza e la paura. I ragazzi – gli ospiti sono tutti molto giovani – ci dicono di stare bene, di voler tornare alla vita di tutti i giorni, anche se nell’Afghanistan di oggi per chiunque è difficilissimo trovare un lavoro, figurarsi un ex tossicodipendente. Potremmo chiudere qui.
Il ponte dei disperati
Ci è stato detto, però, che chi abbiamo incontrato è un fortunato. Qualcuno che, in qualche maniera, è stato intercettato dal sistema. Perchè le maglie sono larghe e milioni di afghani invece arrancano in condizioni terrificanti. Non bisogna fare neanche troppa strada. Allora andiamo a vederli. Il lungofiume sul Kabul un tempo doveva essere un posto affascinante, con i muretti che delimitano i bordi e piccoli ponti pedonali che lo scavalcano portando da una sponda all’altra, dove sono ancora aperti molti negozi e caffè. La siccità però ha essiccato il fiume e dall’odore che emette sembra si tratti di una fogna a cielo aperto. Anzi, probabilmente è così, visto che le principali sorgenti che lo alimentano provengono da tubature che sgorgano un liquido grigio-marrone. Molte persone, nell’avvicinarsi la posto, si portano la sciarpa sul viso, altre indossano le mascherine chirurgiche. Lo spettacolo peggiore è però sotto il ponte, dove un’umanità disperata si è accampata con sistemazioni precarie, in mezzo ai torrentelli d’acqua fetida, a volte con tende luride che penzolano dal ponte, mentre molti dormono direttamente nel fango del letto in secca. Le piogge dei giorni scorsi, salutate come una benedizione dopo quattro anni di siccità, per loro sono una maledizione. Tutto attorno è una distesa di torba maleodorante. Eppure, restano lì, scheletrici, con stracci sporchi a coprirli a stento, scandalizzando i solitamente pudichi afgani. Alcuni si lavano in quel liquido torbido, altri sciacquano gli stracci. Si muovono lenti, con una flemma narcotica, gli occhi che si volgono verso la troupe occidentale senza vedere davvero, senza alcuna curiosità.
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"Tutta colpa di Karzai"
Sopra al ponte, invece, molta gente si accalca attorno a noi. Un gruppo di talebani ci interroga, più per desiderio di sapere che per scrupolo professionale. Hanno il tipico cappello di Kandahar, i capelli lunghi, gli occhi scuriti dal kajal. Guardano in basso, con aria sconsolata. Un ragazzo ben vestito ma dall’aria spiritata ci tiene a farci sapere che lui è un combattente temibile, che ha ucciso gli americani. I talebani lo allontanano, gentili ma decisi. A quel punto irrompe un vecchio con un dente solo in bocca che punta il dito contro di noi con aria minacciosa. "Questo è tutta colpa di Karzai", urla. Poi si allontana. Il talebano porge la mano e mormora: "Thank you". È tempo di andare.