Il 15 agosto di un anno fa i talebani riprendevano il potere in Afghanistan, conquistando la capitale senza sparare un colpo. Da quel momento il Paese è precipitato in una grave crisi economica e sociale, anche se, apparentemente, sembra tutto tranquillo
KABUL - “Taliban good”. Individuarci come occidentali non è stato difficile per l’uomo che ci ha accostato. Siamo gli unici, allo scalo della Kam Air diretto a Kabul, a non indossare gli abiti tradizionali afgani, il Pirhan Tumban, il classico camicione con i pantaloni larghi, e il gilet.
Un buco nero nelle carte geografiche
E al gate l’accoglienza è stata come quella dello straniero in un saloon. Tutti gli sguardi sono puntati su di noi, piccola comitiva di reporter, che siamo arrivati nel cuore della notte per prendere uno dei pochi voli che portano alla capitale afgana. E già questo è un indizio di quello che andremo a trovare: un Paese che da un anno, da quando i talebani hanno ripreso il potere, è tornato a essere un buco nero nelle cartine geografiche. E anche una voragine da cui escono poche notizie, tutte terribili, come il terremoto che ha squassato il Sud-est del paese, o gli attacchi dell’ISIS K, l’erede di Daesh in Afghanistan.
Per il resto, il silenzio, tranne qualche coraggioso reportage che racconta di un Califfato, come si chiama oggi, come negli anni ’90, avvitato in una grave crisi economica e sociale. Con lo Stato a pezzi, impossibilitato nelle transazioni internazionali e con uno scarso interesse strategico negli equilibri mondiali odierni. Perché l’uomo abbia deciso di accostarci e confessarci la sua simpatia per gli Studenti del Corano può avere diverse risposte: o una fede sincera, che comunque in Afghanistan esiste, o la paura di essere considerato un oppositore. Oppure la voglia di fare una professione di fede che lo metta in buona luce. Perché, certamente, tra i passeggeri del volo, qualche talebano ci deve essere.
Una crisi alimentare ed economica che piega il Paese
Quale che sia il motivo, il panorama umano è piuttosto compatto: tutti con la barba, con il cappello tradizionale aperto sulla fronte, un gilet scuro e sandali. Tutti uomini. Solo una piccola delegazione cinese rompe la compattezza del gruppo.
Non c’è ostilità, ma sicuramente diffidenza, anche perché è evidente che noi siamo dei reporter, e il Califfato ha bisogno di mostrare un volto diverso al mondo, se non altro per rompere l’isolamento in cui è precipitato. Ma siamo pur sempre ex nemici, nella migliore delle ipotesi, o provenienti da Paesi che per 20 anni hanno predicato un mondo diverso, salvo poi andarsene in tutta fretta. Gli occidentali non hanno lasciato un buon ricordo, in ogni caso.
Il volo è comunque spettacolare, con l’alba che si erge sulle vette dell’Hindu Kush e del Pamir facendo scolorare il blu della notte nel giallo abbagliante delle rocce e nell’ocra del deserto. Dal finestrino dell’aereo Kabul si presenta all’improvviso: arida, polverosa e brulla, incastrata tra le pendici di due monti e sul letto del fiume Kabul ormai ridotto quasi a rigagnolo. Non piove da quattro anni, la siccità ha messo in ginocchio anche l’agricoltura, uno dei principali mezzi di sostentamento del Paese, insieme alla pastorizia. Ma. se non piove, non ci sono neanche pascoli e si comincia intravedere il circolo vizioso della carestia incombere come il convitato di pietra. Le poche ONG sul campo denunciano i primi casi di malnutrizione e la difficoltà in una fascia sempre più ampia della popolazione a procurarsi dei pasti regolari.
Benvenuti a Kabul
Una volta atterrati a Kabul siamo accolti dalla farraginosa burocrazia dei talebani, che si sono rivelati combattenti spietati, ma un disastro nell’amministrazione pubblica.
L’aeroporto, un tempo scalo internazionale in cui atterravano decine di compagnie aeree, si è come contratto. Sembra essere una qualsiasi località periferica dell’Asia Centrale, con pochi taxi e ancora meno passeggeri, quasi tutti afgani.
La città, a un primo sguardo, sembra quella di sempre. Caotica, sporca, intasata da un traffico ingestibile. Il nostro autista, che parla un inglese approssimativo, ci tiene a indicare tutti i talebani che incrociamo lungo la via. E sono tanti: nei tantissimi check-point, a presidiare gli incroci, di fronte alle caserme abbandonate dalla coalizione internazionale, ora presidiate da miliziani con le divise americane e la shahada, la bandiera bianca del Califfato, di fronte agli ex compound dei contractor.
Una tensione strisciante
Ecco: gli unici occidentali che si intravedono hanno il classico abbigliamento sportivo e la struttura fisica dei mercenari. Sono tornati, loro. Soprattutto per garantire la sicurezza delle delegazioni straniere che cercano di stringere affari, a difesa della Organizzazioni Internazionali, e a scortare i giornalisti che vengono qui a raccontare il primo anno del Califfato. Un momento che per ora gli Studenti del Corano non hanno deciso se celebrare o meno. Nei giorni scorsi le tensioni con la comunità sciita sono esplose con violenza. L’Ashura, la festività dei seguaci di Alì, si è conclusa. La situazione dovrebbe essere sotto controllo.
“Anche quelli sono sicuramente talebani”, ci fa l’autista indicando un gruppo di uomini con il turbante nero e barbe lunghe fino al petto. “Ma ne hai paura?”, chiediamo. “No, no”, risponde rapido. “Va tutto ok”. E invece l’impressione è che non vada affatto ok. Agli incroci decine di bambini sciamano da una macchina all’altra, con insistenza, chiedendo l’elemosina. Pochissime donne, seminascoste nei loro abiti, si affrettano a entrare in negozi dall’aria misera. Kabul non è mai stata ricca, certo. Ma stiamo attraversano Shar–e–Naw, quella che fino a un anno fa rappresentava la green zone della città. Insomma, dove abitava un tempo la borghesia. Però, qui, probabilmente, la borghesia non c’è più. Come tante altre cose, del resto.