In Myanmar, il colpo di stato messo a segno dall’esercito, la nomina di un ex generale alla presidenza ad interim e l’arresto dei principali leader politici, tra cui Aung San Suu Kyi, pongono fine a 10 anni di transizione democratica e fanno ripiombare il Paese nel passato. Il processo di democratizzazione iniziato nel 2011 era stato reso possibile dalla Costituzione varata nel 2008, che apriva la strada ad una “democrazia disciplinata” ma confermava ampi poteri ai militari
13 novembre 2010: inizia la “transizione democratica disciplinata”
Una giornata storica per il Paese e per Aung San Suu Kyi, leader del movimento democratico birmano e figlia dell'eroe dell'indipendenza nazionale, Aung San, l’uomo che aveva guidato il distacco della Birmania dalla Gran Bretagna. Premio Nobel per la Pace nel 1991, San Suu Kyi torna libera dopo 15 anni trascorsi agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Yangon.
Pochi giorni prima si erano svolte le prime elezioni del periodo di transizione verso la democrazia, ancora sotto il dominio dei militari: l’appuntamento con le urne, in quell’occasione, era stato boicottato dalla Lega nazionale per la democrazia (LND) di Suu Kyi.
30 marzo 2011: Thein Sein, generale diventato uomo politico, assume la presidenza della Birmania a capo di una piattaforma con numerosi ex militari e avvia una serie di riforme politiche e sociali nel Paese, tra cui il rilascio di prigionieri politici e la fine della censura.
13 dicembre 2011: la Commissione elettorale approva la legalizzazione della Lega Nazionale per la Democrazia che annuncia la sua intenzione di partecipare alle prossime elezioni.
1 aprile 2012: Suu Kyi a capo della LND e popolarissima nel Paese, riesce a farsi eleggere parlamentare, ottenendo moltissimi voti.
8 novembre 2015: vittoria schiacciante del partito di Suu Kyi alle prime elezioni democratiche in Birmania
30 marzo 2016: esclusa dalla presidenza in base ad una clausola della Costituzione sulla cittadinanza, Suu Kyi assume la direzione del ministero degli Esteri e successivamente ottiene l'incarico di Consigliere di Stato, creato ad hoc per lei, che di fatto le assegna il potere esecutivo.
Il braccio di ferro con i Rohingya
Il 9 ottobre 2016 un gruppo armato di etnia Rohingya, non riconosciuto dalle autorità birmane, lancia un attacco contro tre posti di polizia di frontiera, al quale l’esercito birmano risponde con una serie di rappresaglie. Un altro episodio di violenza - avvenuto il 25 agosto 2017 - si conclude con la fuga in Bangladesh di circa 800mila Rohingya. L'11 dicembre 2019, sempre più criticata dalla comunità internazionale e accusata da diverse Ong che non la riconoscono più come icona democratica, Suu Kyi si rivolge al Tribunale dell'Aja per difendere l'azione militare contro i Rohingya, in risposta all'accusa di genocidio presentata dal Gambia.
10 marzo 2020, le recenti “tensioni” con i militari
In questo giorno, il Parlamento birmano (in cui i militari hanno il diritto di veto) respinge l’ultimo tentativo di riforma della Costituzione promosso dal partito di Suu Kyi: questa era, sì, una proposta di riforma ma soprattutto una delle principali promesse elettorali della leader.
L’8 novembre dello stesso anno, invece, c’è una nuova vittoria schiacciante di Suu Kyi e della Lega nazionale per la democrazia alle elezioni legislative che ottengono l'83% dei seggi in lizza: per i militari il voto è fraudolento, con 10 milioni di voti truccati. Dopo l'umiliante sconfitta subita nelle urne, l'Usdp, la piattaforma politica dei militari e legata agli interessi dell'esercito, chiede nuove elezioni organizzate, ma dall’esercito.
Gli ultimi sviluppi
Prima le voci di un colpo di Stato, poi il 30 gennaio i militari si impegnano a obbedire alla Costituzione e a garantirne la difesa. Due giorni dopo, però, l'esercito birmano arresta San Suu Kyi e dichiara lo stato di emergenza per un anno.
L'ex generale Myint Swe, nominato presidente ad interim dall’esercito del Myanmar, assicura che il colpo di Stato militare che ha rovesciato il governo di Suu Kyi è “costituzionale”.
Burma, Birmania, Myanmar: (anche) il nome del Paese è materia di scontro politico
Tempeste politiche e cambi violenti di regime strettamente legati a questioni linguistiche: probabilmente nessun altro Paese al mondo presenta una tale difficoltà sulla scelta del nome come questo Stato della penisola indocinese.
Il nome Burma (Birmania in italiano e in altre lingue latine) deriva da quello più diffuso usato dagli stessi locali nella lingua colloquiale: Bama. Myama, o Myanma, è la versione nel linguaggio scritto e letterario.
Burma è la denominazione ufficiale usata dalla Corona britannica, che fino al 1948 governa il Paese. Ma lo stesso nome continua ad essere usato dopo l'indipendenza fino al 1989, quando la giunta militare al potere decide di cambiare le traduzioni inglesi di molti nomi risalenti al periodo coloniale e "politicamente non graditi". Il nome del Paese diventa Repubblica dell'Unione del Myanmar. Mentre quello della capitale cambia da Rangoon a Yangon. Nel 2006 la stessa capitale viene trasferita nella città di Pyinmana, che cambia a sua volta il nome in Naypyidan, letteralmente "Sede del re".
Il cambio del nome del Paese resta comunque una questione aperta, essendo materia di scontro. Molti politici e gruppi etnici dell’opposizione, oltre che Paesi stranieri, continuano ad usare il vecchio nome di Burma o Birmania. "Uso molto spesso Burma perché ci sono abituata, e nella nostra Costituzione non c’è alcun articolo che obblighi ad usare un nome o un altro", disse cinque anni fa la stessa Aung San Suu Kyi, capo del governo e deposta con il colpo di Stato del 1 febbraio 2021.