A che punto è la Brexit

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Il report della Luiss School of Government

I prossimi 15 e 16 ottobre i leader dell’Unione europea si incontreranno a Bruxelles per discutere anche delle relazioni con il Regno Unito. Sempre il 15 ottobre scade la deadline annunciata dal premier britannico, Boris Johnson, per trovare un’intesa amichevole tra il suo Paese e l’Unione europea sul futuro post-Brexit. A molti tra i non addetti ai lavori tutto questo potrà sembrare soltanto un déjà vu, eppure sia il vertice europeo sia l’ultimatum britannico si collocano in una fase particolarmente critica e potenzialmente decisiva del laborioso processo di divorzio di Londra dall’Ue.

Sentinella, a che punto è la Brexit?

Proviamo dunque a ricapitolare. A che punto è la Brexit? Ufficialmente ci troviamo nel cosiddetto periodo di transizione. Una fase cominciata lo scorso 31 gennaio, giorno in cui il withdrawal agreement o accordo quadro di recesso tra Londra e Bruxelles è entrato in vigore: già da quel momento il Regno Unito non è più membro dell’Unione europea. Il periodo di transizione dovrebbe terminare il 31 dicembre 2020.


Se avete già sentito parlare di “vertici decisivi” sulla Brexit e di “rinvii all’ultimo minuto” è perché il percorso della Brexit è cominciato ufficialmente nell’ormai lontano 23 giugno 2016. In quella data, con un referendum popolare, i cittadini inglesi votarono a maggioranza (52% vs. 48%) per abbandonare l’Unione europea di cui il Regno Unito era ufficialmente parte dal 1° gennaio 1973.


Dalla metà del 2016 fino al febbraio 2018, si sono succeduti sette round negoziali tra Londra e Bruxelles, culminati in una bozza di accordo quadro di recesso. Bocciato per ben tre volte dalla Camera dei Comuni, l’accordo è stato in parte modificato con la nuova bozza concordata nell’ottobre del 2019. Il tutto mentre all’interno del Partito Conservatore inglese si è consumata la fine della leadership di Theresa May e la lotta per la sua successione, che ha visto vincente Boris Johnson. Quest’ultimo è riuscito a imprimere una nuova accelerazione al processo, anche grazie alla schiacciante vittoria nelle elezioni generali del dicembre 2019; elezioni combattute con lo slogan Get Brexit done. Da qui l’uscita del Regno Unito lo scorso 31 gennaio e l’inizio del periodo di transizione di cui sopra. 


Il periodo di transizione – lo ricordiamo – si è reso necessario perché il Regno Unito, pur non essendo più uno Stato membro dell’Unione europea, è di fatto ancora parte del mercato comune europeo. Di conseguenza il Paese è soggetto all’acquis comunitario in materia. Da qui al 31 dicembre prossimo, anche se la data potrebbe ancora cambiare con l’accordo di entrambe le parti, occorrerà trovare una quadra sui rapporti tra Londra e Bruxelles una volta che la separazione sarà definitivamente consumata.

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I nodi della trattativa e la prospettiva inglese

Il futuro post-mercato comune è dunque il filo rosso che unisce i tre principali dossier adesso sul tavolo della trattativa:

a)     le modalità di accesso del Regno Unito al mercato unico europeo a partire dal 31 dicembre 2020;

b)     i diritti di sfruttamento per la pesca delle reciproche acque territoriali;

c)     la regolazione del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Anche se mediaticamente meno fortunato rispetto agli scontri sulla pesca e sul confine irlandese, il futuro rapporto del Regno Unito col mercato unico europeo (a) è probabilmente il dilemma di fondo degli attuali dissidi. Vediamo brevemente perché. Giornalisti e analisti dell’Europa continentale tendono – talvolta comprensibilmente – ad approfondire ragioni e motivazioni di Bruxelles e degli Stati membri dell’Ue, o comunque a non illuminare a sufficienza tutto ciò che anima il fronte inglese del negoziato. Per compensare questo deficit di attenzione occorre ribadire che uno dei capisaldi del movimento e della campagna a sostegno del Leave tra gli Inglesi fu l’intento di “riprendere il controllo” dei destini del proprio Paese. Il corollario è la piena autonomia del Parlamento inglese come fonte normativa e il pieno controllo dei confini nazionali. Questo punto di vista continua ancora oggi, dopo l’uscita del Regno Unito dall’Ue, ad alimentare attriti con l’approccio europeo. I leader europei infatti da parte loro sarebbero pronti a concedere a Londra l’accesso più ampio possibile al mercato comune, a condizione che siano rispettati alcuni standard e regolamenti comunitari, in primis sugli aiuti di Stato, col ragionevole obiettivo di evitare una concorrenza sleale. I britannici, da parte loro, possono forse accettare di uscire dalle istituzioni comunitarie rimanendo però in qualche modo vincolati alle regole comunitarie, peraltro essendosi privati del diritto di incidere sulla formazione delle stesse? Sarebbe un paradosso. Tanto più che legato a tutto ciò vi è anche il problema di come risolvere eventuali future dispute in questo campo. Per il Regno Unito l’ideale sarebbe il WTO. Tuttavia, legare l’accesso al mercato europeo al rispetto delle regole comunitarie lascerebbe troppo spazio alla possibilità di porre il tutto nelle mani della Corte Europea di Giustizia. Al paradosso si aggiungerebbe la beffa.


Dalla volontà di riprendere pieno controllo dei confini discendono anche gli attriti sui diritti di sfruttamento per la pesca (b). Con la fine del periodo di transizione i pescherecci dei paesi dell’Unione perderanno la libertà di accesso alle acque britanniche – e dunque alle risorse ittiche ivi presenti. Si tratterebbe di un grosso danno soprattutto per la Francia e non a caso il presidente Emmanuel Macron guida la battaglia dei paesi che si affacciano sul Mar del Nord su questo tema. Nonostante il rilievo mediatico e il fatto che Macron necessiti di mostrare i muscoli anche in vista delle elezioni presidenziali del 2022, non sembra comunque trattarsi di un tema in grado di bloccare il raggiungimento di un accordo generale, sia perché la Germania non lo considera cruciale come gli altri due, sia perché il Regno Unito non avrebbe problemi a raggiungere un compromesso su questo punto in cambio di concessioni sugli altri due.


Ben più spinoso, in tema di confini, è il dossier irlandese (c). Infatti, in fase di definizione dell’accordo quadro di recesso, le parti stabilirono che in caso di mancata intesa sul futuro post-mercato comune, il Regno Unito si sarebbe comunque impegnato a non far riemergere alcun “confine fisico rigido” tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord, cioè nell’unico punto di terra in cui le frontiere di Unione europea e Regno Unito si toccano. È questo in sostanza il tanto discusso “backstop” su cui si accordarono i negoziatori. Adesso però il governo inglese sembra aver modificato le sue priorità: se alla fine salta tutto e non si trova un’intesa post-mercato comune – è il ragionamento del governo Johnson – tenere fede all’impegno sul backstop obbligherebbe a creare una frontiera marina tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, creando una barriera interna al mercato nazionale, e questo esito è inaccettabile. Da qui l’approvazione, per ora soltanto da parte della Camera dei Comuni, dell’Internal Market Bill che punta a difendere l’integrità del mercato domestico del Regno Unito in caso di mancata intesa con Bruxelles, ricreando dunque un confine tra le due Irlande e contravvenendo agli impegni presi finora. Ecco spiegata di conseguenza la scelta della Commissione europea di avviare una procedura di infrazione comunitaria per violazione del diritto internazionale da parte di Londra. 


Il premier inglese Johnson, al momento, ha annunciato il 15 ottobre come data limite
entro la quale risolvere questi tre nodi, minacciando che in alternativa si procederà a un divorzio senza accordo. In caso di no deal, le relazioni commerciali ed economiche tra Regno Unito e Unione europea saranno regolate a partire dal 1° gennaio 2021 sulla base del diritto internazionale e delle norme dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO). Si tratta di ultimatum credibile o è soltanto parte di una strategia negoziale? Nessuna ipotesi può essere esclusa a priori. Per una valutazione degli scenari diplomatici futuri, però, occorre anche tenere presente come stanno cambiando gli equilibri politici all’interno del Regno Unito.

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La forza negoziale del Regno Unito? Rischi domestici e atout internazionali

Conservatori in subbuglio. Dal punto di vista di Londra, il rischio di un’intesa non ottimale con Bruxelles deriva innanzitutto dalle difficoltà politiche che il premier Johnson sta incontrando sul fronte domestico. La gestione della pandemia da Covid-19 non ha giovato al consenso di Johnson nell’opinione pubblica inglese. Si noti inoltre che Johnson, con le elezioni del 2019 e la rapida ufficializzazione della Brexit nel gennaio 2020, aveva conquistato l’ala maggiormente conservatrice e filo-Brexit del suo Partito, alienandosi i più moderati e i remainers. Nelle ultime settimane, all’opposto, le scelte sempre di carattere interventista nella lotta alla pandemia lo hanno portato a scontrarsi con i più conservatori e individualisti tra i propri colleghi, riavvicinandolo ai moderati e ai remainers. Su quale dei due schieramenti vorrà e potrà fare affidamento il premier nel braccio di ferro con Bruxelles?


In generale la leadership di Johnson è in crisi. Per rendersene conto sarebbe sufficiente osservare le critiche crescenti che gli vengono mosse dalla stampa amica, come il Telegraph, oppure gli espliciti appelli del pur conservatore Times a un cambio di leadership per i Tories. Al di là delle schermaglie mediatiche, nel Partito conservatore è in corso un’intensa battaglia. A Westminster cresce infatti l’insofferenza per uno stile governativo che, tanto nella gestione dell’economia quanto in quella della pandemia, ha fatto finora molto più affidamento sui consiglieri di Downing Street (“i maoisti”, come sono stati ribattezzati per la loro spregiudicatezza https://www.ft.com/content/1588da49-0cd5-414a-a745-07532d2d99bb) e trascurato i rapporti con i backbenchers, cioè i parlamentari senza ruoli nell’esecutivo. Un conflitto aperto da qualche tempo, animato da gruppi storici del Partito conservatore come la 1922 Committee, e non privo di conseguenze. Lo si è visto nella modifica della legislazione anti Covid-19 e anche in tema di Brexit: sull’Internal Market Bill, per esempio, Johnson si è dovuto piegare alla ribellione di un gruppo importante di suoi parlamentari, prevedendo una sorta di “autorizzazione parlamentare” per poter attivare effettivamente la norma anti-Ue. Sull’altro piatto della bilancia, tuttavia, occorre sempre ricordare che Johnson è stato in grado di vincere in modo schiacciante le elezioni del 2019, consentendo ai Conservatori di conquistare una maggioranza parlamentare tale che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher. Per quanto abbia mostrato una eccessiva dose di inadeguatezza al governo, al momento rimane pur sempre la migliore risorsa elettorale del partito. Naturalmente ciò può cambiare, anche perché le prossime elezioni sembrano molto lontane; ma al momento non è poco.


Laburisti tonici
. Un momento decisamente migliore sembrano attraversarlo i Laburisti inglesi, ininterrottamente all’opposizione dal 2010, cioè dai tempi della premiership di Gordon Brown. L’attuale leader, Keir Starmer, è un socialista che si è rivelato alquanto pragmatico sul dossier Brexit: ha preso atto che il Paese si è espresso con chiarezza in materia, che il divorzio dall’Unione europea è ormai deciso e va solo portato a termine. L’impegno è piuttosto quello di ripensare il Partito laburista allontanandolo tanto da certe battaglie ideologiche dell’era Corbyn, quanto da un Labour a trazione “globalista” che aveva messo in secondo piano valori identitari importanti anche per una parte del suo elettorato storico. Insomma, tentare di scrollarsi di dosso l’immagine di Partito “anti-patriottico” e troppo poco attento alle ricadute delle trasformazioni dell’ultimo venticinquennio sul tessuto socio-economico delle sue roccaforti elettorali, non poche delle quali (quelle della così detta “Red Wall”) nelle ultime elezioni hanno premiato per la prima volta i conservatori. A tutto questo si aggiunga che Starmer sta mostrando una certa efficacia nei dibattiti parlamentari, in particolare in occasione del Prime Minister's Question Time che lo vede contrapporsi direttamente a Johnson.


Autonomisti scozzesi alla finestra
. Molti analisti avevano previsto una nuova fiammata dell’indipendentismo scozzese in contemporanea al realizzarsi del divorzio del Regno Unito dall’Unione europea. Il momento cruciale di verifica sarà la prossima primavera, in occasione delle nuove elezioni per il Parlamento scozzese. Nel caso in cui lo Scottish National Party conquistasse la maggioranza assoluta, non si possono escludere colpi di scena. Occorre dire però che il referendum sull’indipendenza del 2015 si poté tenere in modo legale solo per concessione del Parlamento di Londra, e non è detto che l’attuale maggioranza conservatrice voglia ripetere l’esperimento. Inoltre, nella campagna referendaria di cinque anni fa, gli stessi leader indipendentisti scozzesi parlarono di “occasione unica”; tesi che oggi potrebbero essere utilizzate dagli oppositori dell’indipendenza scozzese per riaffermare il risultato favorevole all’unità nazionale uscito da quel referendum.


Dagli equilibri politici interni, dunque, i negoziatori inglesi possono essere tanto indeboliti quanto rafforzati, a seconda di quali tendenze prevarranno tra quelle individuate finora.


Quali sono invece i punti di forza indiscutibili di Londra in quest’ultimo miglio delle trattative con Bruxelles?
Prima di tutto, è presumibile la volontà di entrambi gli attori, in un momento di forte crisi economica causata dalla pandemia da Covid-19, di evitare ulteriori fattori di incertezza per gli investitori. Mettere un punto finale alla lunga trattativa sulla Brexit, possibilmente grazie a un’intesa quanto più conveniente sull’accesso del Regno Unito al mercato unico europeo, potrebbe dissipare almeno qualche nube all’orizzonte.


Inoltre Londra, da parte sua, ha un settore finanziario che rimane competitivo e florido, sicuramente il più grande d’Europa. Riuscire a “imbrigliare” la City rispetto al mercato comune con modalità quanto più amichevoli, dal punto di vista degli Europei, potrebbe essere uno scenario più vantaggioso rispetto a una concorrenza senza esclusione di colpi (come d’altronde dimostrano alcuni recenti tentativi di intese finanziarie ad hoc promossi da alcuni Stati membri, perfino a dispetto delle volontà della Commissione https://www.ft.com/content/665bad76-b5f6-4a06-8f5b-310f98d7aa47).


Infine, il Regno Unito rimane pur sempre la seconda potenza nell’ambito della NATO, una potenza atomica (l’unica in Europa assieme alla Francia), un Paese dotato di un servizio di intelligence con un ruolo preminente nel mondo occidentale. Sia nelle nuove sfide al terrorismo che nelle contrapposizioni geopolitiche più classiche (per esempio con la Russia e la Cina), insomma, Londra rimane un alleato che gli Europei preferirebbero avere dalla propria parte, senza riserve.

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