La notte che sconvolse la Turchia: 4 anni fa il colpo di Stato fallito

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Tiziana Prezzo

©Getty

Nei giorni dell'anniversario del tentato golpe, ecco qual è la situazione politica nel Paese guidato con pugno duro da Erdogan, il "sultano" che sogna di far rinascere l'antico impero ottomano.

Sono passati solo quattro anni, ma una distanza siderale sembra separare la Turchia attuale da quella esistente prima del tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016.  Bastò una notte a fare capire tante cose: innanzitutto quanto già fosse lontano il Paese anatolico dall’Unione europea e il suo presidente, Recep Tayyip Erdogan, dai leader del vecchio continente: rimasero in silenzio in attesa di vedere come si sarebbe evoluta la vicenda, in ore drammatiche in cui, sul ponte Ataturk, a Istanbul, si sparava su manifestanti inermi contrari al golpe e voci incontrollate si rincorrevano sulla sorte del Capo dello Stato. 

 

Deriva autoritaria

La deriva autoritaria del “Sultano” di Ankara era già iniziata da tempo, così come il progressivo allontanamento dai principi laici della Turchia moderna fondata dal padre della patria Mustafa Kemal. Ma la Turchia che uscì da quella lunga e inquietante notte macchiata di sangue –morirono 290 persone e ne rimasero ferite altre 1440 – fu stravolta da un giro di vite senza precedenti. Puntando il dito contro l’ex amico (diventato arcinemico) Fetullah Gulen, potentissimo e influente predicatore autoesiliatosi diversi anni prima negli Stati Uniti, Erdogan azzerò qualsiasi forma di dissenso interno. Subito scattarono le manette per 2893 presunti golpisti e 2745 giudici furono rimossi dal loro incarico. Nei giorni seguenti il repulisti si estese a migliaia di agenti di polizia, docenti, professori universitari, dipendenti pubblici e giornalisti, licenziati e imprigionati spesso sulla base di un solo sospetto facilmente trasformato in un’accusa micidiale: appartenenza all’organizzazione terroristica di Fetullah Gulen. Tra le persone processate e incriminate con questa accusa ci sono anche gli ex direttore e vicedirettore della sede nazionale di Amnesty International: un fatto mai accaduto prima nella storia dell’organizzazione.  A fine giugno di quest’anno un tribunale di Ankara ha emesso 121 condanne all’ergastolo in uno dei processi principali legati ai fatti del 2016.
A tutt’oggi il Paese della Mezzaluna resta il Paese al mondo con più giornalisti in galera, con buona pace del processo di adesione all’Europa ormai di fatto esistente solo sulla carta.

Il Presidente-Sultano

In questi 4 anni Erdogan ha lavorato per rinvigorire il già forte sentimento nazionalista unendolo sempre più al credo islamico (è di questi giorni la decisione di far ritornare moschea la basilica di Santa Sofia, a Istanbul, trasformata in museo da Ataturk nel 1934 e divenuta simbolo universale di dialogo interreligioso e tolleranza) trasformando la Repubblica in una sorta di moderno “sultanato”, grazie anche a una riforma costituzionale, approvata con un referendum nel 2017, che ha conferito al capo dello Stato nuovi e amplissimi poteri.  Per le strade della Turchia, nei locali, nelle manifestazioni, Il ritratto di “Tayyip” – come lo chiamano affettuosamente i suoi sostenitori - si accompagna sempre più spesso non a quello di Ataturk, come da tradizione, ma a quello del sultano Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, ora Istanbul, di cui Erdogan, tanti anni fa è stato sindaco. “Chi vince Istanbul vince la Turchia”, ha sempre detto il Presidente ed ex primo ministro, tornata elettorale dopo tornata elettorale.  La megalopoli sul Bosforo, però, gli ha recentemente voltato le spalle, eleggendo a sindaco Ekrem Imamoglu, esponente del principale partito di opposizione, il Chp.

La crisi di consensi e la perdita di Istanbul

Complice una crisi economica sempre più evidente (e un’impressionante svalutazione della lira turca) il consenso interno nei confronti del Presidente va corrodendosi in maniera di giorno in giorno più chiara, soprattutto nelle grandi città. Senza contare che Erdogan, negli anni, si è alienato il voto curdo che aveva inizialmente conquistato (si veda anche la presenza militare in Siria in chiave anti curda).  E’ in questo contesto e in questo spirito “neo ottomano” che va letto l’attivismo turco in politica estera, non solo in Siria, ma soprattutto, viene da dire, in Libia: è proprio grazie all’intervento militare turco che la situazione sul terreno si è ribaltata, tutta a vantaggio di Fayez Al Sarraj,  che aveva visto le forze del generale Khalifa Haftar arrivare fino alle porte di casa sua, a Tripoli.

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