La decisione del presidente Fico di interrompere i rapporti con il Parlamento egiziano ha provocato la reazione sdegnata dell’omologo Ali Abdel Aal che ha ribadito l’intenzione del Cairo di giungere alla verità. Una dichiarazione che contrasta con la realtà dei fatti
C’è da dire che per una volta le istituzioni italiane hanno preso una posizione netta sul caso Regeni. E questo è un bene, al di là del fatto che lo si sarebbe potuto – dovuto – fare prima. Parlo della decisione delle autorità giudiziarie di indagare 7 persone che possono ricondursi ai servizi di intelligence egiziana. Della dichiarazione del presidente della Camera, Roberto Fico, di voler interrompere le relazioni con il parlamento egiziano. E della convocazione dell’ambasciatore egiziano alla Farnesina. Gesti più formali che di sostanza, ma che nel linguaggio della diplomazia hanno un significato profondo.
Lo sdegno egiziano, la realtà dei fatti
Non a caso è giunta immediata la replica della controparte: il presidente dell’Assemblea del Popolo (l’equivalente della nostra Camera) ha accusato Fico di non aver atteso la conclusione dell’indagine, mentre l’ambasciatore egiziano in Italia ha assicurato che “l’impegno del governo per fare luce sul caso non può essere messo in discussione”.
Ecco su questo punto, come chiunque abbia seguito un po’ questa vicenda, ci permettiamo di avanzare qualche dubbio.
Sarebbe opportuno, per esempio, ricordare che quando venne ritrovato il corpo straziato del giovane ricercatore italiano, quasi tre anni fa, la prima versione che venne avanzata fu artatamente falsa e degradante per Giulio Regeni. Si parlò di droga, di traffico di reperti archeologici, si insinuò una relazione omosessuale. Chiunque abbia conosciuto Giulio sa che si trattava di indizi falsi, costruiti ad arte per sviare le indagini. Come trascurare poi il fatto che il corpo del ragazzo riportava segni di torture eseguite da mani drammaticamente esperte, segno che era stato a lungo interrogato per estorcere una confessione. E poi il sospetto, mai del tutto allontanato dagli inquirenti egiziani, che Regeni – in definitiva – fosse una spia al servizio di sua Maestà britannica.
Il culmine della “collaborazione” venne raggiunto probabilmente quando, qualche giorno dopo, un gruppo di balordi venne ucciso e vennero sparpagliati indizi relativi a Giulio Regeni per avvalorare la ricostruzione della rapina.
Sempre in questo spirito, probabilmente, va ascritta anche l’incarcerazione e la detenzioen per 4 mesi di Ahmed Abdallah, presidente del consiglio di amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, che affianca la famiglia Regeni dal Cairo. Stessa sorte capitata ad Amal Fathy, moglie di un altro consulente, mentre di Ibrahim Metwally, anche lui del team legale, si sa solo delle indegne condizoni in cui è detenuto.
Quindi ben vengano le “chiusure” italiane.
Le responsabilità di Londra
Anche se qualche domanda bisognerebbe farla anche all’"amica" Londra, che per ora ha opposto uno sdegnato silenzio, per “tutelare l’Università di Cambridge”, istituzione per cui lavorava il nostro ricercatore. Università che si è sentita in dovere di replicare sdegnata alle legittime perplessità sull’incarico, definito “pericoloso”, dato che consisteva nell’indagare sull’opposizione ad al Sisi. Non esattamnete una ricerca "canonica".
Intanto abbiamo fatto la voce grossa col Cairo. Per Londra c’è tempo. E una sana lezione di realpolitik ci impone di non scartare l’ipotesi che in concreto nulla succederà.
Però ci piace pensare che qualche mal di pancia sia stato provocato e che la morte del povero Giulio non resterà totalmente impunita. Perché magari in questo mondo non c’è spazio per la giustizia, ma almeno per un po’ di verità sì.