Caos in Libia, fazioni e interessi dietro agli scontri tra le milizie

Mondo

Alessia de Luca

Dal rovesciamento del regime di Gheddafi, nessuno dei leader libici è riuscito a disarmare le milizie Foto: Archivio Getty Images)

Ecco schieramenti e divisioni di un conflitto che rischia di far saltare le prossime elezioni nel Paese

Cosa c’è dietro lo scontro in Libia, riaccesosi in questi giorni dopo mesi di calma tesa? Chi sostiene le forze in conflitto intorno alla città di Tripoli? Dal rovesciamento e poi la morte del colonnello Muammar al Gheddafi, nell’ottobre 2011,  nessuno dei primi ministri che si sono succeduti al potere è riuscito nell’ambizioso obiettivo di disarmare le centinaia di milizie armate che si contendono il controllo del paese e dei suoi centri nevralgici. Nel paese lo scontro si consuma sullo sfondo di un calendario elettorale che rischia di far precipitare gli eventi e prevede l’appuntamento con le urne il prossimo dicembre.

Al Sarraj e Haftar, chi sono gli uomini forti della Libia

La Libia è spaccata in due: a Tripoli c’è il governo di unità nazionale (Gna) di Fayez Al Sarraj, il premier riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dagli Stati Uniti. Di fatto è l’uomo su cui Roma conta per stabilizzare la Libia, curare gli interessi di Eni nel paese e fermare i flussi di immigrati verso l’Italia. La Francia di Emmanuel Macron sostiene invece Khalifa Haftar, ex generale di Gheddafi e capo dell’ala militare del Parlamento di Tobruk, che cura gli interessi della compagnia petrolifera Total. La Settima Brigata, che sta avanzando dal sud verso il centro della capitale controllata dal governo Sarraj è considerata vicina al generale della Cirenaica. In mezzo tra i due, operano decine di gruppi armati che controllano parti del territorio, operano traffici illeciti di armi e migranti e compiono azioni di guerriglia. Allo scenario interno e a quello internazionale va poi aggiunto un contesto regionale: In Cirenaica il generale Haftar ha il sostegno degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto. Il Cairo lo percepisce come un alleato contro i Fratelli Musulmani presenti a Tripoli. Questi ultimi sono aiutati da Turchia e Qatar.

La capitale in mano alle milizie

Dal 2011, il panorama della sicurezza di Tripoli è estremamente frammentato e formato da un mosaico di gruppi armati  in continua evoluzione. Dal 2014 però, sono quattro le milizie che si sono associate dividendosi il perimetro cittadino in zone di influenza. Queste quattro milizie sono le Forze di deterrenza speciali (Sdf), il Battaglione dei rivoluzionari di Tripoli (Trb), il Battaglione Nawasi e l’unità Abu Salim del Apparato di sicurezza centrale. Col tempo questi gruppi hanno trasformato il loro controllo territoriale in influenza politica e finanziaria e prodotto consistenti guadagni economici, consolidandosi in un vero e proprio cartello. Con la fine degli scontri tra le milizie e la creazione di un "cartello" che si è concentrato sul controllo dell'amministrazione e dell'economia, la situazione della sicurezza a Tripoli era sensibilmente migliorata. Ma questo stato di cose ha alimentato risentimento tra le forze rimaste escluse dal processo di transizione e dalla spartizione di potere. È il caso della settima brigata guidata dal colonnello Abdel Rahim al Kani, legata alla città di Tarhuna, 60 chilometri a sud di Tripoli. Di recente anche ex fazioni vicine al regime di Gheddafi, che godono dell'appoggio di Haftar, si sono unite alla Settima Brigata. Sono loro i protagonisti dell'offensiva in corso a Tripoli contro il governo di Fayez al Serraj. Il leader Al Kani ha più volte dichiarato di voler liberare "Tripoli dalle milizie che prosciugano il denaro pubblico", riferendosi agli uomini pagati dal governo di Tripoli per la sicurezza.

Il nodo elettorale

Senza un esercito nazionale ben armato e compatto, capace di esercitare una funzione deterrente, chiunque abbia a disposizione una milizia può reclamare una fetta di potere. Manca inoltre un accordo sulla base costituzionale per queste elezioni: se si farà ricorso alla legislazione vigente o se sarà necessario riscrivere la Costituzione, il cui referendum continua ad essere rinviato.  In assenza di un contesto istituzionale forte, supportato da un sistema giudiziario efficiente, e di un quadro definito di poteri, le elezioni rischiano di approfondire divisioni tribali e claniche. Senza contare che non c'è ancora un progetto chiaro per come saranno amministrate e distribuite le ricchissime risorse energetiche (petrolio e gas naturale) dell'ex regno di Gheddafi. Un particolare da non sottovalutare.

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