Facebook, Twitter, YouTube: così Erdogan censura i social network

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Ambra Orengo

Recep Tayyip Erdogan (Getty Images)
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Il presidente turco non è nuovo agli attacchi contro le piattaforme di condivisione. Negli anni del suo governo sono numerosi gli episodi in cui vari siti sono stati bloccati. Ma cittadini e opposizione non si fermano e continuano a utilizzarli 

La crisi della Lira turca, secondo Erdogan, è anche colpa dei social e per questo il ministro dell'Interno di Ankara ha annunciato un’indagine su 346 account “che hanno pubblicato contenuti che hanno provocato la crisi del cambio” lira-dollaro. Ma non è la prima volta che in Turchia il presidente decide di attaccare i social media, definiti ripetutamente "la peggiore minaccia per la società”.

Gli episodi del 2014 e 2015

Sono numerosi gli episodi in cui il governo di Ankara ha dichiarato guerra a Twitter, Facebook e piattaforme simili, tanto che è nato un sito internet che monitora le censure. Già quattro anni fa, nel 2014, la Turchia è risultata il Paese al mondo che ha presentato più richieste di rimozione di tweet sgraditi, per un totale di 663. Quell’anno, ad esempio, Erdogan aveva bloccato per settimane YouTube e Twitter dopo imbarazzanti rivelazioni in rete sulla “tangentopoli del Bosforo”. Allora le due reti social si erano rifiutate di censurare i loro utenti, a differenza di quanto hanno poi fatto in altre occasioni. Come ad aprile 2015 quando, dopo il sequestro e l’omicidio del magistrato Mehmet Selim Kiraz da parte del Fronte rivoluzionario di liberazione popolare, i social network ne avevano diffuso la foto. Sia Facebook che Twitter erano quindi stati bloccati dal governo fino alla rimozione completa di tutte le immagini. Un caso simile si è avuto poi anche nel luglio 2015: Twitter è stato bloccato dal governo di Ankara per diverse ore finché non ha rimosso, come richiesto dalle autorità, le 107 foto e video dei momenti successivi alla strage di Suruc, dove un kamikaze dell'Isis ha ucciso 32 volontari che volevano portare aiuti a Kobane.

Stop anche a Wikipedia

Anche nel 2016 la battaglia di Erdogan è andata avanti nei confronti delle piattaforme di condivisione. Nel novembre di quell’anno gli accessi a Facebook, Twitter, WhatsApp e YouTube sono stati bloccati in tutto il Paese dopo l’arresto di 11 deputati del partito filo curdo Hdp. Stessa dinamica un mese dopo, in seguito all’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia Andrey Karlov. Ma i social non sono gli unici ad essere finiti nel mirino di Ankara. Nell’aprile del 2017, l’enciclopedia online Wikipedia è stata oscurata dal governo dopo la richiesta di cancellare alcuni contenuti ritenuti colpevoli di “supportare i terroristi”.

I social: uno strumento per l’opposizione

Un’avversione, quella di Recep Tayyip Erdogan nei confronti dei social network, data dal fatto che internet sia stato e continui a essere una delle piazze principali in cui gli oppositori del governo si ritrovano e discutono. Lo scorso giugno, una frase pronunciata dal presidente - "Hanno una sola preoccupazione: distruggere Recep Tayyip Erdogan. Se il mio popolo dirà basta, ci faremo da parte", pronunciata per polemizzare contro gli avversari prima delle elezioni - si è trasformata in un boomerang per il presidente. Nel giro di poche ore, l'hashtag #tamam (in questo contesto usato per dire “ora basta”) è diventato virale su Twitter, con oltre mezzo milione di citazioni sui social network e un fiume di caricature e fotomontaggi sarcastici. L’utilizzo di Twitter da parte dei gruppi di opposizione come strumento di protesta affonda le radici nel 2013: per aggirare la censura su tv e giornali, Twitter è stato infatti utilizzato, ad esempio, per convocare le imponenti manifestazioni di Gezi Park.

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