Funzionari russi al New York Times: ci fu doping alle Olimpiadi

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In un’inchiesta del giornale americano alcuni dirigenti di Mosca hanno rivelato l'esistenza di un'operazione per aggirare i sistemi di controllo, negando però il coinvolgimento dello Stato

In Russia è stato ordito "uno dei maggiori complotti nella storia dello sport", che ha permesso a molti atleti di coprire l’utilizzo di sostanze dopanti non solo durante le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014 ma anche in altre edizioni dei Giochi. È quanto emerge da un’inchiesta realizzata dal "New York Times" contenente per la prima volta le dichiarazioni in questo senso di una serie di funzionari di Mosca, che però hanno negato con forza il coinvolgimento dello Stato nell'operazione.

 

La condanna della Wada - Il 9 dicembre scorso la World anti-doping agency (Wada) ha pubblicato la seconda parte del rapporto che aveva il compito di fare luce su questo presunto scandalo. Nel documento, redatto dall’avvocato canadese Richard McLaren, venivano confermate le accuse già avanzate precedentemente, secondo le quali il ministero dello Sport a Mosca sarebbe stato a capo di un capillare sistema di doping. A causa delle schiaccianti prove prodotte dalle indagini, il Comitato olimpico internazionale ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti di numerosi atleti russi. Secondo il rapporto "il sistema" andrebbe ben oltre Sochi 2014: i primi casi di doping, infatti, risalirebbero a 6 anni prima e riguarderebbero 312 manipolazioni.

 

Non si tratta di "doping di Stato" - Nel maggio 2016, sempre sulle colonne del "New York Times", l'ex capo del laboratorio nazionale antidoping, Grigory Rodchenkov, aveva fatto intuire come anche le più alte sfere dello Stato fossero a conoscenza del sistema fraudolento. Tesi che è stata smentita dalle ultime interviste: secondo Anna Antseliovich, capo dell'agenzia antidoping russa, infatti "si è trattato di una cospirazione istituzionale" ma che non ha coinvolto alti funzionari del governo.

 

Modus operandi - Dalle ricostruzioni fatte dai funzionari al "New York Times" si delinea un sistema ben organizzato. I direttori dei laboratori, infatti, non si sarebbero limitati a manomettere i risultati dei campioni di urina degli atleti per aggirare il sistema antidoping, ma avrebbero anche fornito agli sportivi i cocktail di sostanze necessari a migliorare le loro prestazioni nelle gare. Durante le interviste i funzionari, cercando di analizzare i motivi che hanno spinto questi campioni a doparsi, hanno rivelato di aver individuato un sentire comune secondo il quale alla fine barare non fosse così grave perché serviva a "compensare quello che percepivano come un trattamento preferenziale per le nazioni occidentali". 

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