Usa, tra gli afroamericani di Ferguson: battiamo la cultura dell’odio

Mondo

Liliana Faccioli Pintozzi

Nella città dove due anni fa l’America riscoprì  gli scontri razziali

A Canfield Drive i bambini sono tornati a giocare per strada. Il punto in cui Michael Brown venne ucciso lo riconosci solo per una toppa sull’asfalto; in memoria del ragazzo che con la sua morte per mano di un poliziotto diede vita alla galassia di proteste e movimenti chiamata Black Lives Matter rimane una targa. L’aria non odora più di lacrimogeni, la Guardia Nazionale non si vede da tempo. Dietro l’angolo West Florissant Avenue, la «Ground Zero» delle proteste razziali, è tornata a essere la sonnacchiosa strada di un tipico sobborgo del Midwest americano. 

 

«Adesso le cose a Ferguson vanno meglio, dentro di noi continuiamo le proteste, le seguiamo, ma non scendiamo più in strada, questo è il momento di ricostruire». A raccontarci il sentimento di quelli che costrinsero gli Stati Uniti a guardarsi l’anima è un ragazzo di 22 anni, alto, torso nudo, pantaloni bassi sui fianchi. Ci dice di essere il cugino di Michael Brown. L’amico che era con lui il giorno in cui è stato ucciso. Willie Tillmann, uno dei martiri di Black Lives Matter. Tante identità, per una sola verità: giovane e afroamericano, lui rappresenta tutti, si identifica con tutti, vittime e manifestanti.

 

Le cose vanno meglio, ma l’attenzione resta alta: la bassa marea della consapevolezza sta scoprendo in tutto il Paese una realtà che sembrava superata da tempo. «È una tempesta silenziosa, in qualsiasi momento il minimo episodio può scatenare il peggio; e ogni volta che succede qualcosa, ti ritrovi con 30 milioni di giudici». Adolphus Pruitt fotografa così la situazione. Per il presidente della sede di St. Louis dell’Associazione nazionale per la promozione  delle persone di colore, una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti, «se ne parla di più che in passato perché con i social media c’è una conoscenza immediata di qualsiasi episodio, ma se a questo unisci gli attacchi razzisti che il primo presidente afroamericano riceve dal pubblico e da alcuni colleghi, c’è di che riflettere su quanta strada ancora debba essere fatta».

 

Per molti rimane un paradosso che proprio sotto l’amministrazione di Barack Obama la questione razziale sia tornata in prima pagina, incombendo ora sulle elezioni, tra le promesse di ordine e legalità di Donald Trump, e l’impegno a una riforma della polizia di Hillary Clinton. Ma secondo Pruitt «Obama non ha potuto essere tanto aggressivo quanto avrebbe voluto, perché temeva che se lo avesse fatto avrebbe solo aumentato lo scontento verso la comunità. Ma ha dato inizio a un dibattito necessario, che il prossimo presidente dovrà continuare in maniera più aggressiva, per creare consenso su come gestire e migliorare quello che accade».

 

Dalle politiche per la casa alla sanità, dall’istruzione al lavoro, «è un insieme di fattori che colpisce la comunità afroamericana», un insieme su cui lavorare. A Ferguson lo sanno, e la comunità cerca di ricostruire i suoi legami. Ma in un Missouri da sempre simbolo di supremazia bianca e attivismo nero, si può ancora essere uccisi per questo. Come è morto assassinato da ignoti Darren Seals Jr. Lo chiamavano The King, aveva 29 anni, lavorava per allontanare i più giovani da corruzione e violenze, la sera manifestava, il giorno lavorava, e puliva le strade del sobborgo. «Era un esempio per tutti», così ce lo descrive la sorella Latoya dalla Corea del Sud dove presta servizio per l’Aeronautica Militare. «Il punto è che l’amministrazione Obama non può farcela da sola. Dobbiamo fare tutti la nostra parte. Non possiamo permettere che i nostri ragazzi siano corrotti dall’odio. Darren è morto per questo, adesso tocca a noi».

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