Brexit, da Churchill a Cameron la storia dei rapporti tra Uk ed Europa

Mondo

Silvia Scaramuzza

Il premier Cameron mentre parla davanti a una statua di Churchill
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Dai primi discorsi del dopoguerra dello statista inglese fino alla decisione di indire il referendum da parte dell'attuale premier, come si è sviluppato il legame tra britannici e continentali negli ultimi settant'anni. SPECIALE - FOTO - VIDEOMAPPE

Nel 1975 il 67% dei cittadini britannici votò a favore dell’ingresso nella Comunità Economica Europea. Nel 2016, il 51,9% ha votato contro l’Unione Europea. Il rapporto tra Regno Unito ed Europa è stato sempre complesso, giocato su un doppio filo. Da una parte la Gran Bretagna ha spinto per rafforzare il processo d’integrazione europea, a volte guidandolo. Dall’altra, ha sempre cercato di mantenere la sua indipendenza rispetto al progetto comune.   

 

CHURCHILL DETTA LA LINEA: CON L’EUROPA, MA FUORI DALL’EUROPA

Due discorsi di Churchill, tra i padri fondatori dell’Europa unita, sembrano sintetizzare bene questa situazione. Nel 1946, a Zurigo, nel celebre discorso alla gioventù accademica, Churchill esorta gli stati europei a scongiurare nuove guerre, proponendo la creazione degli Stati Uniti d’Europa, un progetto di unione politica federale sovranazionale. Dice:

 

“Esiste un rimedio che potrebbe rendere in pochi anni tutta l'Europa, o almeno la maggior parte di essa, libera e felice com'è oggi la Svizzera. Qual è questo rimedio sovrano? Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà. Dobbiamo creare una sorta di Stati Uniti d'Europa”

 

Quando viene istituita la CECA, comunque, la Gran Bretagna decide di non parteciparvi. Lo stesso vale per il progetto, poi fallito, della CED. Nel suo discorso al Parlamento l’11 maggio del 1953, Churchill lascia intendere chiaramente che il Regno Unito è pronto a supportare sia militarmente che politicamente la Comunità Europea di Difesa, ma senza farne parte. Afferma:

 

“Da che parte stiamo? Non siamo membri della Comunità Europea di Difesa, né intendiamo unirci al sistema federale europeo. Eppure, sentiamo di avere una relazione speciale con entrambi. Questo concetto si può esprimere meglio mediante preposizioni, con la preposizione “con” piuttosto che con quella “di” – noi siamo “con” loro, ma non “di” loro. Noi abbiamo il nostro Commonwealth e il nostro Impero”

 

Churchill fissava quindi la linea politica che da lì in poi il paese avrebbe seguito. Il Regno Unito avrebbe giocato un ruolo pieno e attivo nella costruzione dell’Europa, cercando sempre di mantenere la propria indipendenza, a garanzia del suo ruolo di guida e della sua posizione strategica come anello di congiunzione fra Stati Uniti, Commonwealth ed Europa.

 

IL REGNO UNITO CI RIPENSA, MA ORA C’È DE GAULLE

Quando, con i trattati di Roma del 1957, viene istituita la CEE, il Regno Unito decide di non parteciparvi. Tempo dopo, Jean Monnet, dirà al riguardo che:

 

“Non ho mai capito perché gli inglesi non si unirono, ma sono arrivato alla conclusione che ad aver pesato deve essere stato il prezzo della vittoria – l’illusione che puoi mantenere ciò che hai, senza cambiamento alcuno”

 

A quei paesi che non vogliono o non possono aderire alla CEE, la Gran Bretagna propone la propria visione alternativa, con la creazione dell’EFTA, un’area di libero scambio che inizialmente comprende sette paesi. Nel corso degli anni, tuttavia, il progetto perde il suo slancio. A mano a mano che il processo di costruzione europea si rafforza, sempre più paesi decidono di abbandonare l’EFTA in nome della CEE, non ultimo il Regno Unito.

Nel 1961 il premier conservatore della Gran Bretagna, Harold Macmillan, presenta la candidatura del paese alla CEE, strutturalmente considerata più competitiva rispetto all’EFTA. Dopo lunghi ed estenuanti negoziati, però, De Gaulle decide di mettere il veto all’ingresso della Gran Bretagna. De Gaulle annuncia la sua decisione in una celebre conferenza stampa, il 14 gennaio del 1963, motivando la questione sotto un punto di vista economico-geopolitico:

 

“È chiaro che l’entrata della Gran Bretagna e di altri stati cambierebbe completamente il volto della CEE sotto vari punti di vista. Un mercato a 11, a 13 o a 18 sarebbe senza dubbio molto diverso da quello che i sei stati hanno costruito. In tal modo la coesione tra gli stati membri verrebbe meno e il progetto potrebbe prendere le fattezze di una gigantesca comunità atlantica alla dipendenza degli Stati Uniti”

 

IL REFERENDUM DEL 1975

Dopo il secondo veto di De Gaulle, nel 1967, la Gran Bretagna si prepara ad avviare per la terza volta la procedura di adesione alla CEE, riuscendo finalmente ad entrare nel 1973. In questo lasso di tempo il quadro è cambiato. De Gaulle ha lasciato la presidenza a Pompidou, alla testa della Gran Bretagna c’è di nuovo un conservatore e la situazione economica del paese è in declino. L’entrata nella CEE stabilizza la situazione. Questo dato comunque non aiuta a vincere le reticenze dell’opinione pubblica inglese. Nel 1974, il laburista Wilson imposta la campagna elettorale sull’impegno a rinegoziare i termini dell’adesione britannica alla comunità, promettendo un referendum consultivo sull’opportunità di rimanere nella CEE. Il referendum si tiene nel 1975 e, almeno fino al 2011, è la prima e unica consultazione a tenersi su tutto il territorio del Regno Unito. A vincere è il sì, con il 67% dei voti. Il voto è così ripartito:

 

NO

Inghilterra

69%

31%

Galles

65%

35%

Irlanda del Nord

52%

48%

Scozia

58%

42%

 

Irlanda del Nord e Scozia sono meno restie ad accettare l’adesione alla CEE.

 

LA QUESTIONE EUROPEA SPACCA I PARTITI

Lo scetticismo dei laburisti verso il progetto comunitario comunque permane per una serie di ragioni pragmatiche, prima fra tutte la riluttanza a cedere parte della propria sovranità nazionale in materie come le politiche agricole, economiche o socio-economiche a un’istituzione altra, guidata da interessi divergenti e percepita come scarsamente legittima dal punto di vista democratico. La questione ha sempre diviso l’opinione pubblica e la classe politica inglese in maniera profonda, tanto da far affermare allo storico Bogdanor che:

 

“Alcuni ritengono che il conflitto maggiore nella politica britannica del dopo-guerra non sia tanto tra destra e sinistra, quanto tra quelli che credono che il futuro della Gran Bretagna sia con l’Europa e quelli che credono il contrario”

 

La questione infatti divide sia i laburisti che i conservatori. Nel 1981 il partito laburista si spacca tra chi è ostile all’Europa e chi è a favore. Nasce quindi il partito social democratico (SDP), oggi partito dei liberal democratici. Negli anni ’90 il tema divide anche i conservatori.

 

LA LADY DI FERRO DICE NO ALL’UNIONE, MA SÌ ALLA COOPERAZIONE

Il governo della Thatcher rappresenta un momento emblematico nella storia dei rapporti euro-britannici.  Nel 1975 la Thatcher prende parte alla campagna per il sì, ma sin dall’inizio del suo insediamento al governo, nel ‘79, si dimostra molto critica rispetto ai contributi finanziari che gli inglesi versano al budget comunitario. Famosa è la sua frase “I want my money back!, slogan ripetuto più e più volte che domina gli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta. In una conferenza stampa nel ’79, afferma: “Noi non chiediamo una parte dei penny della Comunità per la Gran Bretagna. Quello che noi chiediamo è una larga parte dei nostri soldi indietro”. Nella stessa occasione, la Thatcher chiarisce la sua posizione, dicendo che ci sono nazioni che contribuiscono meno all’Europa, ottenendo però di più, come la Germania. L’altra motivazione che spinge la Lady di ferro a chiedere il rebate è che una percentuale molto alta del budget europeo viene destinata alla politica agricola comune, fattore che mette la Gran Bretagna in una posizione di svantaggio visto che il settore agricolo in Gran Bretagna contribuisce al PIL in maniera limitata. La questione aperta dalla Thatcher giunge a conclusione nel 1984, quando il governo inglese riesce a strappare il rimborso di parte dei contributi versati annualmente al bilancio comunitario, pari a circa il 66%. L’entità del rebate viene calcolata una volta ogni sette anni ed è stata nettamente modificata nel 2005, quando Tony Blair ha acconsentito a rinunciare al 20% del rimborso per il periodo 2007-2013, percentuale che rimarrà in piedi anche nel periodo 2014-2020.

Allo stesso tempo, comunque, la Thatcher sostiene l’Atto Unico Europeo dell’86, che oltre a un primo abbozzo di unione politica mira a completare la costruzione del mercato unico. L’atteggiamento della Thatcher nei confronti dell’Europa sembra quindi rientrare nel quadro strategico delineato abilmente da Churchill, quello di un Regno Unito “con l’Europa ma non dell’Europa”. Nel celebre discorso di Brugge nell’89, per esempio, la Thatcher afferma di essere favorevole alla cooperazione ma non all’unione federale. Dice:

 

“Il nostro destino è in Europa, come parte della Comunità, ma questo non vuol dire che il nostro futuro risiede solo nell’Europa. La Comunità non è mero fine. Io sono la prima a dire che, su molte questioni, le nazioni europee dovrebbero parlare con una sola voce […] ma per lavorare insieme non c’è bisogno di centralizzare i poteri a Bruxelles, né di far prendere le decisioni ai burocrati”

 

Nell’acceso dibattito del 30 ottobre 1990, che poi in parte porterà alla sua caduta meno di un mese dopo, la Thatcher, di fronte alla Camera dei Comuni afferma con forza il proprio no sia all’accentramento dei poteri a Bruxelles sia all’adozione di una moneta unica. Il suo no, ripetuto per tre volte, rimarrà nella storia.

 

“Il Presidente della Commissione Delors, nel corso di una conferenza stampa nei giorni scorsi ha detto che vuole che il Parlamento Europeo sia il braccio democratico della Comunità, che la Commissione sia il ramo esecutivo e che il Consiglio dei Ministri sia il Senato. No. No. No”

 

Il no della Thatcher è anche un no fermo alla partecipazione allo SME e all’adozione di un unico sistema monetario. Afferma:

 

“Questo governo non ha intenzione di abolire la sterlina. Se l’ECU dovesse evolversi in qualcosa di più grande, allora diventerebbe una decisione importante per i futuri governi e le future generazioni. Questa decisione può essere presa una e una sola volta […] Quello che viene proposto ora – un’unione economica e monetaria – rappresenta l’anticamera di un’Europa federale, che noi rigettiamo totalmente e con forza. Preferiamo piuttosto la cooperazione economica e monetaria”

 

Dopo il dibattito, il vice-ministro Geoffrey Howe si dimette e il partito si spacca. La Thatcher è costretta a dimettersi e il governo passa a John Major. Dopo anni di opposizione, è proprio un conservatore a portare l’Inghilterra dentro Maastricht, sintomo di un partito diviso in maniera profonda.

 

NO ALL’EURO, MA SÌ ALL’UNIONE

È John Major a portare il Regno Unito alla firma del Trattato di Maastricht nel 1992. Il governo riesce nell’impresa grazie agli opt-out, che permettono l’approvazione da parte del Parlamento. Nel 1992, un potente attacco speculativo sulla sterlina e altre monete come la lira porta alla crisi dei cambi e costringe il Regno Unito all’uscita dallo SME, fatto che provoca una nuova crisi politica, che nel ’97 porta all’elezione di Tony Blair.

Con l’elezione di Blair il timone del governo, dopo 18 anni, torna di nuovo nelle mani dei laburisti, che vincono le elezioni con un ampio margine di vittoria, il più grande nella storia del partito. La vittoria del New Labour sembra inizialmente aprire maggiori spazi di cooperazione con l’Europa. Blair è un internazionalista, e sembra favorevole all’adozione della moneta unica. Tuttavia il suo ministro delle Finanze Gordon Brown è contrario all’idea. Dal 2003 il sostegno inglese all’invasione statunitense dell’Iraq peggiora i rapporti tra il Regno Unito e l’UE. Al contempo, l’opinione pubblica diviene sempre più euroscettica, tanto da spingere Blair a promettere un referendum per l’approvazione della Costituzione europea, referendum poi cancellato a causa del rigetto della Costituzione da parte di Francia e Paesi Bassi. A firmare il Trattato di Lisbona è Gordon Brown, nel 2007.

 

CAMERON VUOLE IL REFERENDUM

Questo è stato finora il rapporto tra Regno Unito e Unione Europea. Una relazione complessa, giocata sul confine labile tra il desiderio dell’indipendenza e quello dell’inclusione in un progetto altro, dai contorni sfumati e continuamente in moto. Un legame che ha sempre funzionato, almeno fino al 22 gennaio del 2013, quando Cameron, in un lungo e atteso discorso sull’Unione Europea, ha lanciato per la prima volta la proposta del referendum. A distanza di tre anni da quella data, il primo ministro sconta con le dimissioni la pena per quell’azzardo, lasciando ad altri la responsabilità di ricompattare il partito, per metterlo nelle condizioni di negoziare i termini di quell’uscita che lui stesso ha chiamato in causa.

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