Nel secondo anniversario dalla fine del regime, il clima nel paese è ancora di tensione. E lo stesso slogan “Pane, libertà e giustizia sociale” che saliva da piazza Tahrir contro l’ex raìs ora è urlato contro il nuovo presidente dei Fratelli musulmani
A due anni dalla fine del regime di Hosni Mubarak e a poco più di sei mesi dall'insediamento del primo presidente eletto democraticamente in Egitto Mohamed Morsi, l'invocata transizione democratica stenta a decollare e gli slogan urlati una volta contro il raìs trentennale sono lanciati ora contro il nuovo presidente del Fratelli musulmani. "Pane, libertà e giustizia sociale", era il grido che saliva da piazza Tahrir nel 2011. E' lo stesso che viene invocato nelle ultime manifestazioni. Ultime di una lunga serie di proteste che hanno avuto come obiettivo prima il Consiglio militare e poi i Fratelli musulmani e la loro 'guida spirituale', Mohamed Badie, indicato da molti come il vero presidente del Paese. I più recenti violenti disordini hanno provocato oltre sessanta vittime, hanno investito varie città egiziane, soprattutto Port Said, e sancito definitivamente la nascita di un nuovo luogo simbolo della rivolta egiziana. Dopo piazza Tahrir, l'epicentro delle proteste ora è il palazzo presidenziale di Ittahadeya.
I due anni dall'11 febbraio 2011 sono stati segnati da una raffica di avvenimenti senza precedenti in questo Paese: le prime elezioni parlamentari libere, il primo presidente proveniente da un movimento rimasto clandestino e fuorilegge per vari decenni, un potere transitorio affidato ai militari che alla fine hanno ceduto il passo al nuovo capo dello Stato, una nuova Costituzione, approvata in un referendum popolare. Tutti passaggi che sulla carta indicano che l'Egitto si sta muovendo verso un assetto democratico, ma che in realtà hanno portato a una polarizzazione sempre più acuta del Paese, fra sostenitori dei movimenti islamici - a loro volta sempre più divisi fra supporter della Fratellanza al potere e i movimenti salafiti integralisti, secondi in Parlamento, ma esclusi dal governo - e le forze laiche e liberali. Anche queste ultime, pur riunite sotto l'ombrello del Fronte di salvezza nazionale, non riescono ad avere una linea unitaria efficace e nemmeno a interpretare la rabbia crescente della piazza.
Un appello alla non violenza mediato da al Azhar, prestigioso centro religioso, è fallito miseramente, dimostrando la distanza fra la politica e le dinamiche di aggregazione di strada, sulle quali stanno agendo elementi finora sconosciuti sulla scena egiziana come i black bloc. Si fanno sempre più dure e insistenti le accuse al potere di non aver rinunciato alle tecniche repressive dell'ancien regime e di non fare niente contro il fenomeno sempre più grave delle violenze sessuali durante le manifestazioni di piazza.
Ma le divisioni politiche sono solo uno degli elementi di questa tormentata transizione segnata da una grave crisi economica, che potrebbe a sua volta alimentare la protesta. Gli ultimi dati diffusi il 10 febbraio dicono che l'inflazione è aumentata del 6,6% rispetto al gennaio 2012. Le riserve di valuta straniera hanno toccato il fondo e possono coprire solo i prossimi tre mesi di import, mentre la lira egiziana continua a svalutarsi. Tutti dati importanti in un Paese che è il principale importatore di grano al mondo e che fornisce il pane sovvenzionato a milioni di persone tenendo il prezzo fermo ai livelli degli anni Ottanta, con un costo per lo Stato previsto per quest'anno di 16 miliardi di lire egiziane, pari a due miliardi di euro. La grande instabilità sta anche rallentando le procedure per la concessione del prestito di Fondo monetario internazionale, in un avvitamento fra politica ed economia sempre più carico di tensioni.
I due anni dall'11 febbraio 2011 sono stati segnati da una raffica di avvenimenti senza precedenti in questo Paese: le prime elezioni parlamentari libere, il primo presidente proveniente da un movimento rimasto clandestino e fuorilegge per vari decenni, un potere transitorio affidato ai militari che alla fine hanno ceduto il passo al nuovo capo dello Stato, una nuova Costituzione, approvata in un referendum popolare. Tutti passaggi che sulla carta indicano che l'Egitto si sta muovendo verso un assetto democratico, ma che in realtà hanno portato a una polarizzazione sempre più acuta del Paese, fra sostenitori dei movimenti islamici - a loro volta sempre più divisi fra supporter della Fratellanza al potere e i movimenti salafiti integralisti, secondi in Parlamento, ma esclusi dal governo - e le forze laiche e liberali. Anche queste ultime, pur riunite sotto l'ombrello del Fronte di salvezza nazionale, non riescono ad avere una linea unitaria efficace e nemmeno a interpretare la rabbia crescente della piazza.
Un appello alla non violenza mediato da al Azhar, prestigioso centro religioso, è fallito miseramente, dimostrando la distanza fra la politica e le dinamiche di aggregazione di strada, sulle quali stanno agendo elementi finora sconosciuti sulla scena egiziana come i black bloc. Si fanno sempre più dure e insistenti le accuse al potere di non aver rinunciato alle tecniche repressive dell'ancien regime e di non fare niente contro il fenomeno sempre più grave delle violenze sessuali durante le manifestazioni di piazza.
Ma le divisioni politiche sono solo uno degli elementi di questa tormentata transizione segnata da una grave crisi economica, che potrebbe a sua volta alimentare la protesta. Gli ultimi dati diffusi il 10 febbraio dicono che l'inflazione è aumentata del 6,6% rispetto al gennaio 2012. Le riserve di valuta straniera hanno toccato il fondo e possono coprire solo i prossimi tre mesi di import, mentre la lira egiziana continua a svalutarsi. Tutti dati importanti in un Paese che è il principale importatore di grano al mondo e che fornisce il pane sovvenzionato a milioni di persone tenendo il prezzo fermo ai livelli degli anni Ottanta, con un costo per lo Stato previsto per quest'anno di 16 miliardi di lire egiziane, pari a due miliardi di euro. La grande instabilità sta anche rallentando le procedure per la concessione del prestito di Fondo monetario internazionale, in un avvitamento fra politica ed economia sempre più carico di tensioni.