Secondo uno studio, nel 2011 la comunità hacker e altri gruppi simili sono stati responsabili di oltre il 58 per cento dei dati compromessi a livello mondiale. In un ebook, il racconto di un fenomeno più eterogeneo di quanto si possa credere. L'ESTRATTO
di Carola Frediani
È stato detto e ridetto che le origini di Anonymous risalgono a 4chan, un’enorme, eclettica, lunatica bacheca di immagini e commenti anonimi, in lingua inglese, nata nel 2003 come sito di contenuti manga e anime (semplificando, cartoni animati giapponesi).
Quasi in contemporanea alla comparsa di Facebook, che avrebbe sbancato il web chiedendo a milioni di suoi utenti di metterci la faccia (e possibilmente anche il nome e cognome), 4chan, e soprattutto la sua sottosezione /b, diventavano il luogo di culto dell’anonimato, dell’irrisione, del politicamente scorretto, dell’anarchia. Ma anche dell’apprendimento di tecniche e know how, dell’uso spregiudicato della rete e delle sue potenzialità.
Come si sia arrivati da lì all’Anonymous che ha sostenuto la Primavera Araba, Occupy Wall Street o a quella che si batte contro le corporation del petrolio che vogliono trivellare nell’Artico, come avvenuto di recente con la OpSaveTheArctic, resta un mistero. O comunque un fenomeno complesso che dovrebbero affrontare soprattutto gli studiosi di sociologia e antropologia. (…)
In Anonymous restano ancora molte tracce di quella genesi, a cominciare dal desiderio di ridere e di irridere, prendendo di mira soprattutto il senso comune, le istituzioni o chiunque si ponga in una posizione di superiorità morale.
Resta il linguaggio sessista, volgare, omofobico, anche se sempre più inconsistente, scollato, come in un serpente che ha già fatto la muta ma a cui ancora è rimasta addosso la pelle precedente. Resta lo spirito anarcoide dei suoi membri, che emerge anche quando sono costretti comunque a coordinarsi per portare avanti azioni complesse.
Resta l’impossibilità di cucirgli addosso un’agenda politica definita. Resta la possibilità, per chiunque agisca dentro le maglie piuttosto ampie che definiscono Anonymous, di rivendicarne il brand. Come in altri casi, però, quella che è la sua forza spesso è anche il suo limite. Alcuni dei suoi membri o simpatizzanti pensano che il movimento di hacktivisti dovrebbe fare un ulteriore salto di qualità, affrancandosi dalle sue origini e dalla ricerca, a volte fine a se stessa, di risate isteriche. “È come se la mentalità da 4chan, momentaneamente scomparsa, fosse sempre rimasta sotto traccia”, mi dice Barrett Brown, che dopo aver partecipato con entusiasmo alla OpFreedom, la campagna di sostegno alla Primavera Araba, aveva poi preso le distanze da Anonymous quando le azioni erano tornate su Sony o altri obiettivi giudicati meno incisivi politicamente. “Molte persone tra le più intelligenti se ne sono allontanate o sono state arrestate: c’è troppa gente che parla di sciocchezze, e ci vorrebbero più regole di comportamento. Oggi in Anonymous c’è una carenza di leadership. E tuttavia c’è ancora molto potenziale, specie fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti, in Paesi come il Messico, il Giappone, il Bahrein, posti dove i problemi tendono a essere più gravi, le persone più serie”.
In realtà, come abbiamo visto, l’influenza di WikiLeaks, e il suo modello, hanno modificato la traiettoria di questo movimento. Il prelievo e leak di dati, usato sempre più spesso con l’idea di smascherare aziende e governi, sta diventando una pratica sempre più diffusa.
Secondo un recente rapporto commissionato dalla telco americana Verizon, nel 2011 Anonymous e altri gruppi affini sono stati responsabili di oltre il 58 per cento dei dati compromessi a livello mondiale. Gli hacktivisti avrebbero sottratto 100 milioni di set di dati. Su questo specifico aspetto stanno nascendo anche gruppi di lavoro dedicati, come tanti epigoni di Julian Assange, decisi però a rielaborare la sua lezione (e a distanziarsi dai suoi errori, quali l’eccessivo protagonismo).
Uno di questi si chiama Par:Anoia, acronimo che sta per Potentially Alarming Research: Anonymous Intelligence Agency, e cioè ricerche potenzialmente allarmanti: l’unità di intelligence di Anonymous. Un sito di soffiate alla WikiLeaks con la differenza che gran parte dei documenti riservati divulgati, in modo molto più ordinato e contestualizzato dei dump nudi e crudi, arrivano dalle incursioni degli anonimi nei database delle aziende. Anche se sul sito non manca una sezione che spiega come contattarli per passare loro delle informazioni.
“La nostra idea è di muoverci come un’agenzia di intelligence, non al servizio dei governi ma della gente”, mi spiega il già citato Tokyo, che è tra i membri più attivi di Par:Anoia, in una chat di gruppo insieme ad altri anons.
“Ma c’è anche una parte di ricerca, che consiste nel corredare materiali preselezionati con spiegazioni e analisi. In pratica si tratta di combinare una piattaforma di leak, di soffiate, a un’attività di ricerca sulle informazioni che emergono dalle stesse. La differenza principale con WikiLeaks è che qui non ci sono namefags, cioè nessuno che esca alla scoperto, come Assange, e quindi nessuno da collegare a tutto questo”. Il che, fanno capire, avrebbe un doppio vantaggio: mette al riparo i suoi membri da azioni legali e ritorsioni governative; ma evita anche che il progetto sia indebolito da lotte di potere o per la visibilità. “Riteniamo che l’Ego delle persone possa distruggere questo genere di cose, per cui abbiamo progettato un sistema tale che gli Ego non riescono neppure a radicarsi in prima istanza”. Ma come arrivano e vengono gestiti i vari leaks? (…)
“Una volta ricevuto il materiale e deciso se vale la pena pubblicarlo, lo buttiamo online, e poi cominciamo progressivamente ad analizzarlo e ad aggiungere informazioni. Non ci servono i media perché siamo NOI i media”. (…)
È questo il futuro degli anonimi? “Non so se Anonymous durerà ancora per molto tempo - mi dice Neo - anche se fino ad oggi, malgrado il suo carsismo, non ha ceduto. Per quel che mi riguarda vorrei che evolvesse in un movimento alla Julian Assange, più divulgativo, che “hacktivo”, come dite voi giornalisti”.(…)
Il fatto è che, come nel caso di una persona dal carattere esuberante e contraddittorio, le insidie maggiori alle potenzialità di Anonymous non vengono dall’esterno, dalle agenzie investigative o dai suoi nemici, ma dal proprio interno. Dalle divisioni, il sospetto, il gioco di riflessi che rischiano di far perdere gli anonimi in un fantasmagorico labirinto di specchi. Dal conflitto insolubile tra la necessità di nascondere la propria identità e il desiderio di riconoscimento.
Tra la tentazione istintiva di fidarsi del prossimo, di creare legami personali, e l’obbligo ragionato di mantenere le distanze. Tra l’ideale di una democrazia radicale, di un egualitarismo destrutturato, e i vantaggi derivanti dal sostegno di una leadership quanto meno morale.
Tutti i diritti riservati - Informant
Tratto da Carola Frediani, Dentro Anonymous. Viaggio nelle legioni dei cyberattivisti, Informant, 2,99 euro
È stato detto e ridetto che le origini di Anonymous risalgono a 4chan, un’enorme, eclettica, lunatica bacheca di immagini e commenti anonimi, in lingua inglese, nata nel 2003 come sito di contenuti manga e anime (semplificando, cartoni animati giapponesi).
Quasi in contemporanea alla comparsa di Facebook, che avrebbe sbancato il web chiedendo a milioni di suoi utenti di metterci la faccia (e possibilmente anche il nome e cognome), 4chan, e soprattutto la sua sottosezione /b, diventavano il luogo di culto dell’anonimato, dell’irrisione, del politicamente scorretto, dell’anarchia. Ma anche dell’apprendimento di tecniche e know how, dell’uso spregiudicato della rete e delle sue potenzialità.
Come si sia arrivati da lì all’Anonymous che ha sostenuto la Primavera Araba, Occupy Wall Street o a quella che si batte contro le corporation del petrolio che vogliono trivellare nell’Artico, come avvenuto di recente con la OpSaveTheArctic, resta un mistero. O comunque un fenomeno complesso che dovrebbero affrontare soprattutto gli studiosi di sociologia e antropologia. (…)
In Anonymous restano ancora molte tracce di quella genesi, a cominciare dal desiderio di ridere e di irridere, prendendo di mira soprattutto il senso comune, le istituzioni o chiunque si ponga in una posizione di superiorità morale.
Resta il linguaggio sessista, volgare, omofobico, anche se sempre più inconsistente, scollato, come in un serpente che ha già fatto la muta ma a cui ancora è rimasta addosso la pelle precedente. Resta lo spirito anarcoide dei suoi membri, che emerge anche quando sono costretti comunque a coordinarsi per portare avanti azioni complesse.
Resta l’impossibilità di cucirgli addosso un’agenda politica definita. Resta la possibilità, per chiunque agisca dentro le maglie piuttosto ampie che definiscono Anonymous, di rivendicarne il brand. Come in altri casi, però, quella che è la sua forza spesso è anche il suo limite. Alcuni dei suoi membri o simpatizzanti pensano che il movimento di hacktivisti dovrebbe fare un ulteriore salto di qualità, affrancandosi dalle sue origini e dalla ricerca, a volte fine a se stessa, di risate isteriche. “È come se la mentalità da 4chan, momentaneamente scomparsa, fosse sempre rimasta sotto traccia”, mi dice Barrett Brown, che dopo aver partecipato con entusiasmo alla OpFreedom, la campagna di sostegno alla Primavera Araba, aveva poi preso le distanze da Anonymous quando le azioni erano tornate su Sony o altri obiettivi giudicati meno incisivi politicamente. “Molte persone tra le più intelligenti se ne sono allontanate o sono state arrestate: c’è troppa gente che parla di sciocchezze, e ci vorrebbero più regole di comportamento. Oggi in Anonymous c’è una carenza di leadership. E tuttavia c’è ancora molto potenziale, specie fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti, in Paesi come il Messico, il Giappone, il Bahrein, posti dove i problemi tendono a essere più gravi, le persone più serie”.
In realtà, come abbiamo visto, l’influenza di WikiLeaks, e il suo modello, hanno modificato la traiettoria di questo movimento. Il prelievo e leak di dati, usato sempre più spesso con l’idea di smascherare aziende e governi, sta diventando una pratica sempre più diffusa.
Secondo un recente rapporto commissionato dalla telco americana Verizon, nel 2011 Anonymous e altri gruppi affini sono stati responsabili di oltre il 58 per cento dei dati compromessi a livello mondiale. Gli hacktivisti avrebbero sottratto 100 milioni di set di dati. Su questo specifico aspetto stanno nascendo anche gruppi di lavoro dedicati, come tanti epigoni di Julian Assange, decisi però a rielaborare la sua lezione (e a distanziarsi dai suoi errori, quali l’eccessivo protagonismo).
Uno di questi si chiama Par:Anoia, acronimo che sta per Potentially Alarming Research: Anonymous Intelligence Agency, e cioè ricerche potenzialmente allarmanti: l’unità di intelligence di Anonymous. Un sito di soffiate alla WikiLeaks con la differenza che gran parte dei documenti riservati divulgati, in modo molto più ordinato e contestualizzato dei dump nudi e crudi, arrivano dalle incursioni degli anonimi nei database delle aziende. Anche se sul sito non manca una sezione che spiega come contattarli per passare loro delle informazioni.
“La nostra idea è di muoverci come un’agenzia di intelligence, non al servizio dei governi ma della gente”, mi spiega il già citato Tokyo, che è tra i membri più attivi di Par:Anoia, in una chat di gruppo insieme ad altri anons.
“Ma c’è anche una parte di ricerca, che consiste nel corredare materiali preselezionati con spiegazioni e analisi. In pratica si tratta di combinare una piattaforma di leak, di soffiate, a un’attività di ricerca sulle informazioni che emergono dalle stesse. La differenza principale con WikiLeaks è che qui non ci sono namefags, cioè nessuno che esca alla scoperto, come Assange, e quindi nessuno da collegare a tutto questo”. Il che, fanno capire, avrebbe un doppio vantaggio: mette al riparo i suoi membri da azioni legali e ritorsioni governative; ma evita anche che il progetto sia indebolito da lotte di potere o per la visibilità. “Riteniamo che l’Ego delle persone possa distruggere questo genere di cose, per cui abbiamo progettato un sistema tale che gli Ego non riescono neppure a radicarsi in prima istanza”. Ma come arrivano e vengono gestiti i vari leaks? (…)
“Una volta ricevuto il materiale e deciso se vale la pena pubblicarlo, lo buttiamo online, e poi cominciamo progressivamente ad analizzarlo e ad aggiungere informazioni. Non ci servono i media perché siamo NOI i media”. (…)
È questo il futuro degli anonimi? “Non so se Anonymous durerà ancora per molto tempo - mi dice Neo - anche se fino ad oggi, malgrado il suo carsismo, non ha ceduto. Per quel che mi riguarda vorrei che evolvesse in un movimento alla Julian Assange, più divulgativo, che “hacktivo”, come dite voi giornalisti”.(…)
Il fatto è che, come nel caso di una persona dal carattere esuberante e contraddittorio, le insidie maggiori alle potenzialità di Anonymous non vengono dall’esterno, dalle agenzie investigative o dai suoi nemici, ma dal proprio interno. Dalle divisioni, il sospetto, il gioco di riflessi che rischiano di far perdere gli anonimi in un fantasmagorico labirinto di specchi. Dal conflitto insolubile tra la necessità di nascondere la propria identità e il desiderio di riconoscimento.
Tra la tentazione istintiva di fidarsi del prossimo, di creare legami personali, e l’obbligo ragionato di mantenere le distanze. Tra l’ideale di una democrazia radicale, di un egualitarismo destrutturato, e i vantaggi derivanti dal sostegno di una leadership quanto meno morale.
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Tratto da Carola Frediani, Dentro Anonymous. Viaggio nelle legioni dei cyberattivisti, Informant, 2,99 euro