Libano, viaggio tra i profughi siriani
MondoIl reportage dalla periferia di Tripoli dove si sono rifugiati i sopravvissuti al regime. Degli uomini di Assad dicono: “Questa è gente che ha squartato bambini, assassinato anziani a sangue freddo, come possiamo perdonarli?”
Lo speciale di Jetlag, Se il Libano brucia, di Tiziana Prezzo, andrà in onda sabato 22 settembre alle 21.35 e domenica 23 alle 01.35, alle 15.35 e alle 18.35. Qui sotto invece il reportage realizzato per Sky.it.
di Tiziana Prezzo
Tripoli, Libano - Tarek ha il volto solcato da rughe. Difficile dire quali siano dovute all’età e quali al dolore. Certo le preoccupazioni quotidiane non sono poche e fanno ricacciare in gola le lacrime: non c’è tempo per piangere.
A quasi sessant’anni deve badare a quella parte della sua famiglia che è riuscita a mettersi in salvo da Baba Amr, il popoloso quartiere a Sud di Homs, lì dove, lo scorso febbraio, si è verificata una delle battaglie più lunghe e sanguinose di tutta la guerra civile siriana e dove hanno perso la vita anche la giornalista Marie Colvin e il fotoreporter Remi Ochlik.
Incontriamo Tarek nella periferia di Tripoli, lì dove sono sorte, tra polvere e immondizia, una serie di baracche, tutte abusive, abitate da poveri libanesi e rifugiati siriani. “Siamo finiti qui perché conoscevo questa zona già da tanti anni”, spiega.
Come molti altri siriani provenienti da Homs, infatti, già da molto prima della guerra faceva il lavoratore stagionale in Libano (Paese che un reddito pro capite più alto di quello siriano): nei mesi di ottobre e novembre qui è la stagione della raccolta delle olive.
Mentre accetta di parlarci col volto coperto dalla kefiah bianca e rossa, le donne della famiglia si siedono intorno a lui col velo che lascia scoperti solo gli occhi: abbiamo una telecamera e una macchina fotografica e loro hanno tutti paura di ritorsioni
Uomini non ne vediamo. “Mio cognato è stato catturato e giustiziato dagli uomini del regime. Aveva deciso di unirsi insieme ai ribelli e per lui non c’è stato scampo”, spiega indicando la figlia e le due nipotine che quietamente gli siedono accanto.
“Siamo fuggiti dopo la sua morte per mettere in salvo loro e le altre donne della mia famiglia, come la mia povera moglie. A Baba Amr non è rimasto più niente, tutto è andato distrutto, raso al suolo dalla furia di Assad”, racconta ancora.
La moglie ascolta in silenzio.
In un angolo della baracca adibito a cucina sta preparando il cay, il tè, perché la povertà non va mai a scapito della proverbiale cortesia riservata all’ospite. Come i tanti profughi che abbiamo incontrato in questa parte del Libano, anche Tarek vorrebbe tornare il prima possibile in Siria, ma già si sta abituando all’idea che morirà nel Paese dei Cedri.
La convinzione è che la guerra durerà a lungo. Gli chiediamo se pensa che, qualora fosse sconfitto il presidente Bashar Al Assad, in Siria tornerebbe la pace. “Certo”, dice subito sicuro, ma poi aggiunge: “però gli alawiti (musulmani sciiti di cui fa parte la famiglia di Assad e che per lui non sono veri musulmani ndr) dovranno stare in disparte”.
A questo punto la figlia rimasta vedova rompe il silenzio. “Questa è gente che ha squartato bambini, assassinato anziani a sangue freddo, come possiamo perdonarli?”, chiede.
Il suo racconto delle violenze subite trasuda di dettagli macabri. Lampi di odio attraversano i suoi occhi. Il futuro di questa famiglia, come di decine di migliaia di altre giunte in Libano, appare oltremodo incerto.
L’attività di assistenza è pressoché delegata all’attività dell’Unhcr e delle Organizzazioni non governative. Il Paese dei Cedri, infatti, non ha mai firmato la convenzione internazionale dei rifugiati del 1951, per questo motivo i siriani in Libano vengono definiti “displaced”, profughi e non rifugiati. Il Libano paga ancora lo scotto dei campi palestinesi presenti nel proprio Paese.
Campi che dovevano essere provvisori e che sono invece ancora tutti lì. Anche l’inserimento di migliaia di bambini nelle scuole pubbliche libanesi è un processo tutt’altro che facile, anche per la diversità di programmi scolastici che esistono tra le due nazioni (in Libano le materie scientifiche si imparano in inglese o francese a partire dalla quarta elementare).
Di questi bambini, durante questo lungo periodo di incertezza, se ne sono occupati l’Unicef e le Ong, tra cui anche l’italiana Terre del Hommes.
Tdh fa parte del network AGIRE, che proprio in queste settimane ha lanciato la campagna “Emergenza Siria”. “I fondi a disposizione delle Organizzazioni internazionali sono molto pochi, nonostante i ripetuti appelli ai donatori dell’Unhcr” , spiega Dana Sleiman, portavoce dell’Alto Commissariato in Libano. In questi giorni, per poter dare una mano, basta anche solo un SMS.
di Tiziana Prezzo
Tripoli, Libano - Tarek ha il volto solcato da rughe. Difficile dire quali siano dovute all’età e quali al dolore. Certo le preoccupazioni quotidiane non sono poche e fanno ricacciare in gola le lacrime: non c’è tempo per piangere.
A quasi sessant’anni deve badare a quella parte della sua famiglia che è riuscita a mettersi in salvo da Baba Amr, il popoloso quartiere a Sud di Homs, lì dove, lo scorso febbraio, si è verificata una delle battaglie più lunghe e sanguinose di tutta la guerra civile siriana e dove hanno perso la vita anche la giornalista Marie Colvin e il fotoreporter Remi Ochlik.
Incontriamo Tarek nella periferia di Tripoli, lì dove sono sorte, tra polvere e immondizia, una serie di baracche, tutte abusive, abitate da poveri libanesi e rifugiati siriani. “Siamo finiti qui perché conoscevo questa zona già da tanti anni”, spiega.
Come molti altri siriani provenienti da Homs, infatti, già da molto prima della guerra faceva il lavoratore stagionale in Libano (Paese che un reddito pro capite più alto di quello siriano): nei mesi di ottobre e novembre qui è la stagione della raccolta delle olive.
Mentre accetta di parlarci col volto coperto dalla kefiah bianca e rossa, le donne della famiglia si siedono intorno a lui col velo che lascia scoperti solo gli occhi: abbiamo una telecamera e una macchina fotografica e loro hanno tutti paura di ritorsioni
Uomini non ne vediamo. “Mio cognato è stato catturato e giustiziato dagli uomini del regime. Aveva deciso di unirsi insieme ai ribelli e per lui non c’è stato scampo”, spiega indicando la figlia e le due nipotine che quietamente gli siedono accanto.
“Siamo fuggiti dopo la sua morte per mettere in salvo loro e le altre donne della mia famiglia, come la mia povera moglie. A Baba Amr non è rimasto più niente, tutto è andato distrutto, raso al suolo dalla furia di Assad”, racconta ancora.
La moglie ascolta in silenzio.
In un angolo della baracca adibito a cucina sta preparando il cay, il tè, perché la povertà non va mai a scapito della proverbiale cortesia riservata all’ospite. Come i tanti profughi che abbiamo incontrato in questa parte del Libano, anche Tarek vorrebbe tornare il prima possibile in Siria, ma già si sta abituando all’idea che morirà nel Paese dei Cedri.
La convinzione è che la guerra durerà a lungo. Gli chiediamo se pensa che, qualora fosse sconfitto il presidente Bashar Al Assad, in Siria tornerebbe la pace. “Certo”, dice subito sicuro, ma poi aggiunge: “però gli alawiti (musulmani sciiti di cui fa parte la famiglia di Assad e che per lui non sono veri musulmani ndr) dovranno stare in disparte”.
A questo punto la figlia rimasta vedova rompe il silenzio. “Questa è gente che ha squartato bambini, assassinato anziani a sangue freddo, come possiamo perdonarli?”, chiede.
Il suo racconto delle violenze subite trasuda di dettagli macabri. Lampi di odio attraversano i suoi occhi. Il futuro di questa famiglia, come di decine di migliaia di altre giunte in Libano, appare oltremodo incerto.
L’attività di assistenza è pressoché delegata all’attività dell’Unhcr e delle Organizzazioni non governative. Il Paese dei Cedri, infatti, non ha mai firmato la convenzione internazionale dei rifugiati del 1951, per questo motivo i siriani in Libano vengono definiti “displaced”, profughi e non rifugiati. Il Libano paga ancora lo scotto dei campi palestinesi presenti nel proprio Paese.
Campi che dovevano essere provvisori e che sono invece ancora tutti lì. Anche l’inserimento di migliaia di bambini nelle scuole pubbliche libanesi è un processo tutt’altro che facile, anche per la diversità di programmi scolastici che esistono tra le due nazioni (in Libano le materie scientifiche si imparano in inglese o francese a partire dalla quarta elementare).
Di questi bambini, durante questo lungo periodo di incertezza, se ne sono occupati l’Unicef e le Ong, tra cui anche l’italiana Terre del Hommes.
Tdh fa parte del network AGIRE, che proprio in queste settimane ha lanciato la campagna “Emergenza Siria”. “I fondi a disposizione delle Organizzazioni internazionali sono molto pochi, nonostante i ripetuti appelli ai donatori dell’Unhcr” , spiega Dana Sleiman, portavoce dell’Alto Commissariato in Libano. In questi giorni, per poter dare una mano, basta anche solo un SMS.