Libia, la sfida sarà costruire la pace

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Il dopo guerra in Libia rappresenta una sfida per la nascente democrazia - Credit: Getty
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Tra il rischio di vendette trasversali e la speranza di una democrazia, le decisioni prese oggi segneranno il paese per i prossimi anni. Iraq, Afghanistan e Kosovo sono lezioni da cui imparare. Come sa bene chi ha vissuto il dopoguerra in quei Paesi

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di David Saltuari

Uccidere Gheddafi? "E' un nostro diritto", sostiene il ministro dell'Interno del Cnt, Ahmed Darrad: "Lui ci uccide, è un criminale e un fuorilegge. In tutto il mondo, se un criminale non si arrende, chi fa rispettare la legge ha diritto di ucciderlo" ribadisce. Parole forti, che danno il senso dell'aria che si respira in queste ore in Libia.
La guerra non è ancora finita, ma il vecchio regime è praticamente caduto mentre il nuovo governo non ha ancora esteso la sua autorità su tutto il territorio. Un vuoto di potere che potrebbe venire riempito da violenze private, vendete trasversali o bande criminali. Da sempre, infatti, i dopoguerra sono le fasi più delicate di un conflitto, giorni che possono segnare per anni il destino di un paese.

Coinvolgere le vecchie forze dell'ordine
- Ma, nonostante le parole di Darrad, dalla Libia per ora "assistiamo a dei segnali positivi"dice a Sky.it Ettore Sequi, ex Ambasciatore d'Italia a Kabul ed ex Rappresentante Speciale della UE per Afghanistan e Pakistan ed esperto in affari internazionali: "La caduta del regime non ha dato vita a saccheggi come in Iraq e i ribelli hanno adottato dei piani per proteggere le infrastrutture strategiche".
Una gestione ancora fragile che va protetta, anche imparando dalle lezioni del passato. Baghdad, Afghanistan, Kosovo: gli ultimi anni hanno visto diversi scenari bellici in cui le forze occidentali sono state protagoniste in prima linea, anche, in qualche caso, con errori e valutazioni sbagliate. Come quando in Iraq esercito e polizia vennero sciolti nel timore fossero fedeli a Saddam Hussein. Un errore da non ripetere secondo Sequi. Quella scelta "ha di fatto provocato la disoccupazione per una grandissimo numero di soggetti dotati di addestramento militare che finirono per confluire tra le fila dei rivoltosi" spiega il diplomatico. "Certo - continua - è importante perseguire chi si è macchiato le mani di sangue, ma polizia o esercito devono continuare a includere chi non è coinvolto in violenze o altri crimini".

Garantire non solo la sicurezza
- I rischi più pressanti, spiega a Sky.it Andrea Angeli, decano dei funzionari internazionali italiani ed autore dei volumi Professione Peacekeeper e Senza Pace, sono quelli "legati a scenari che abbiamo già visto negli ultimi vent’anni in vari teatri post-conflict: Iraq, Afghanistan, ma anche Kosovo. In primis l’assenza di sicurezza, che determina anche l'impossibilità o grande difficoltà  nel ripristino dei servizi essenziali (energia elettrica, acqua corrente, viabilità)".
Ma il nuovo Stato non deve pensare solo alla sicurezza."Il generale Dalla Chiesa - ricorda Sequi - diceva che la Mafia prolifera lì dove lo stato non è in grado di garantire i suoi servizi essenziali". Per rendere stabile la pace è necessario "assicurare una corretta gestione di quelle che sono le aspettative della popolazione. Aspettative che riguardano i bisogni primari, umanitari, come quelli sanitari". Questo, racconta Sequi "è quello che in Afghanistan intendevamo per dimensione istituzionale della sicurezza. La sicurezza è anche misurata con la velocità con cui le istituzioni sono in grado di erogare questi servizi."

L'intervento militare? "Una iattura" - La tentazione, in un caso come questo, potrebbe essere l'invio di forze straniere, che intervengano per mantenere l'ordine pubblico. Un'opzione bocciata da un esperto di interventi umanitari come il generale Franco Angioni, comandante della missione italiana in Libano nel 1982. "Un intervento militare internazionale significa rischiare di schierarsi per forza con una delle parti in causa - spiega a Sky.it - Sul campo, ora, sarebbe impossibile mantenersi equidistanti e si rischierebbe di venire vissuti come forza d'invasione. Sarebbe una iattura".
In un caso come quello libico, per l'ex militare, si può contare soltanto "su un grande sforzo diplomatico per aiutare le tribù e le parti in causa a trovare l'interesse comune per restare uniti".
Un'idea condivisa anche da Angeli, secondo cui "l’intervento straniero non è all’ordine del giorno in Libia e quindi ogni strategia sul dopoguerra dovrà scaturire dalle decisioni dei libici."

Il ruolo della diplomazia internazionale
- Importante è che la diplomazia internazionale spinga il Consiglio nazionale di transizione a garantire il principio dell'inclusione. Il nuovo paese, concordano gli esperti, deve fare sì che nessuno degli attuali gruppi sociali che compongono la Libia, possa sentirsi escluso dalla potenziale ricostruzione di un futuro paese che si spera democratico. "Un principio che non deve applicarsi solo alla Libia, ma è una regola generale per la gestione di situazioni post belliche analoghe" conclude Sequi. Una regola che è quasi una speranza.
Andrea Angeli non nasconde le difficoltà: "Il modello perfetto non c'è. I dopoguerra sono quasi sempre lunghi e dolorosi"

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