Lo riferiscono "fonti governative" di Damasco. Intanto i vertici del partito Baath hanno deciso di abrogare la legge d'emergenza in vigore da 48 anni, accogliendo la richiesta del movimento anti regime
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Da dodici giorni scosso da proteste interne senza precedenti, il regime siriano torna a promettere la fine dello stato di emergenza in vigore da quasi mezzo secolo, ma intanto è costretto a mantenere schierato l'esercito a Latakia, porto della regione nord-occidentale da cui proviene la famiglia presidenziale, mentre non si placano le proteste dei residenti della città meridionale di Daraa.
In attesa del più volte annunciato discorso alla nazione del rais Bashar al-Assad, il suo consigliere presidenziale Buthayna Shaaban è riapparsa domenica 27 marzo sugli schermi delle tv panarabe per assicurare che la direzione del Baath, al potere da 48 anni, ha deciso di abrogare la legge d'emergenza, in vigore dall'avvento dello stesso partito "arabo socialista". La decisione - hanno però affermato "fonti ufficiali" - sarà formalizzata dopo l'approvazione della "legge anti-terrorismo". Altre non meglio precisate fonti ufficiali siriane hanno assicurato che "martedì prossimo" 29 marzo il governo siriano si dimetterà, e che "entro la settimana", ovvero entro il primo aprile, "sarà annunciata una nuova legge sulla stampa e un'altra sui partiti". Quest'ultima dovrebbe preparare la strada al tanto atteso emendamento dell'articolo n.8 della Costituzione, che dal 1973 affida al Baath il ruolo "di guida del Paese e della società".
Su Internet attivisti e dissidenti hanno intanto convocato nuove manifestazioni di protesta: a Damasco, il raduno anti-regime è indetto nella centrale Grande Moschea degli Omayyadi, teatro il 18 e il 25 marzo scorso delle prime manifestazioni esplicite di dissenso, sopraffatte per numero da cortei di lealisti. Il ministro degli interni è intervenuto di persona sulla tv di Stato e tramite l'invio di SMS "ai cittadini", invitandoli a non partecipare ai raduni, definendo "menzogneri" e "tendenziosi" gli appelli e i volantini.
Secondo organizzazioni umanitarie internazionali e locali dall'inizio delle proteste sono morte oltre 120 persone, per lo più a Daraa, capoluogo della regione meridionale epicentro della dura repressione, e della vicina Samnayn, ma anche a Latakia (6 morti accertati), Damasco (3 ) e Homs (2). Il governo continua ad attribuire a "bande armate" le violenze di questi giorni. Dopo aver accusato "parti straniere" di aver armato e istigato i "gruppi di sabotatori" a Daraa e Samnayn, i media ufficiali affermano che ignoti uomini armati hanno ucciso il 26 marzo a Latakia 12 persone, dieci dei quali agenti di polizia. L'agenzia di notizie Sana aveva diffuso la notizia dell'arresto di un americano, di origini egiziane, accusato di avere legami con Israele e di esser coinvolto negli scontri. In serata, sempre il consigliere Shaaban ha puntato esplicitamente il dito contro "fondamentalisti", confermando l'arresto nelle ultime ore di un numero di "stranieri".
Secondo testimoni oculari di Latakia citati da Human Rights Watch, gli ignoti cecchini che il 26 marzo avrebbero ucciso "almeno sei manifestanti" sarebbero membri della Guardia presidenziale, la forza d'elite comandata da Maher al-Assad, fratello del presidente. Nella città portuale mista sunnita e alawita, abitata anche da cristiani, stazionano da 24 ore i blindati dell'esercito siriano, giunto in soccorso sabato sera delle forze di sicurezza. E all'esercito era stato affidato da giorni anche il controllo degli ingressi ai villaggi meridionali attorno a Daraa, diventato ormai il luogo simbolo della rivolta.
Nella città meridionale anche domenica 27 marzo in occasione di tre diversi funerali di "martiri" uccisi dalle forze di sicurezza (in tutto solo a Daraa sarebbero 60 i morti civili), folle di residenti sunniti hanno scandito lo slogan ormai non piu' tabu' contro il potere centrale: "Il popolo vuole la caduta del regime!". E all'indomani della scarcerazione di 260 prigionieri politici, per lo più islamici, in segno di distensione verso la rivolta del sud il governo ha rimesso in libertà un'attivista originaria di Daraa. Diana Jawabira è tornata libera assieme ad altri 15 dissidenti che erano finiti in carcere lo scorso 16 marzo durante il sit-in nei pressi del ministero degli interni. Una dozzina di loro compagni rimangono però dietro le sbarre, in forza proprio della legge d'emergenza.
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Da dodici giorni scosso da proteste interne senza precedenti, il regime siriano torna a promettere la fine dello stato di emergenza in vigore da quasi mezzo secolo, ma intanto è costretto a mantenere schierato l'esercito a Latakia, porto della regione nord-occidentale da cui proviene la famiglia presidenziale, mentre non si placano le proteste dei residenti della città meridionale di Daraa.
In attesa del più volte annunciato discorso alla nazione del rais Bashar al-Assad, il suo consigliere presidenziale Buthayna Shaaban è riapparsa domenica 27 marzo sugli schermi delle tv panarabe per assicurare che la direzione del Baath, al potere da 48 anni, ha deciso di abrogare la legge d'emergenza, in vigore dall'avvento dello stesso partito "arabo socialista". La decisione - hanno però affermato "fonti ufficiali" - sarà formalizzata dopo l'approvazione della "legge anti-terrorismo". Altre non meglio precisate fonti ufficiali siriane hanno assicurato che "martedì prossimo" 29 marzo il governo siriano si dimetterà, e che "entro la settimana", ovvero entro il primo aprile, "sarà annunciata una nuova legge sulla stampa e un'altra sui partiti". Quest'ultima dovrebbe preparare la strada al tanto atteso emendamento dell'articolo n.8 della Costituzione, che dal 1973 affida al Baath il ruolo "di guida del Paese e della società".
Su Internet attivisti e dissidenti hanno intanto convocato nuove manifestazioni di protesta: a Damasco, il raduno anti-regime è indetto nella centrale Grande Moschea degli Omayyadi, teatro il 18 e il 25 marzo scorso delle prime manifestazioni esplicite di dissenso, sopraffatte per numero da cortei di lealisti. Il ministro degli interni è intervenuto di persona sulla tv di Stato e tramite l'invio di SMS "ai cittadini", invitandoli a non partecipare ai raduni, definendo "menzogneri" e "tendenziosi" gli appelli e i volantini.
Secondo organizzazioni umanitarie internazionali e locali dall'inizio delle proteste sono morte oltre 120 persone, per lo più a Daraa, capoluogo della regione meridionale epicentro della dura repressione, e della vicina Samnayn, ma anche a Latakia (6 morti accertati), Damasco (3 ) e Homs (2). Il governo continua ad attribuire a "bande armate" le violenze di questi giorni. Dopo aver accusato "parti straniere" di aver armato e istigato i "gruppi di sabotatori" a Daraa e Samnayn, i media ufficiali affermano che ignoti uomini armati hanno ucciso il 26 marzo a Latakia 12 persone, dieci dei quali agenti di polizia. L'agenzia di notizie Sana aveva diffuso la notizia dell'arresto di un americano, di origini egiziane, accusato di avere legami con Israele e di esser coinvolto negli scontri. In serata, sempre il consigliere Shaaban ha puntato esplicitamente il dito contro "fondamentalisti", confermando l'arresto nelle ultime ore di un numero di "stranieri".
Secondo testimoni oculari di Latakia citati da Human Rights Watch, gli ignoti cecchini che il 26 marzo avrebbero ucciso "almeno sei manifestanti" sarebbero membri della Guardia presidenziale, la forza d'elite comandata da Maher al-Assad, fratello del presidente. Nella città portuale mista sunnita e alawita, abitata anche da cristiani, stazionano da 24 ore i blindati dell'esercito siriano, giunto in soccorso sabato sera delle forze di sicurezza. E all'esercito era stato affidato da giorni anche il controllo degli ingressi ai villaggi meridionali attorno a Daraa, diventato ormai il luogo simbolo della rivolta.
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