Internet può essere anche uno strumento al servizio dei regimi autoritari. Come accaduto in Sudan, dove le autorità hanno messo in piedi un finto evento di protesta, con relativa finta fan page, o in Tunisia e Egitto. Cronaca di una svolta preoccupante
di Federico Guerrini
Si erano iscritti a una pagina Facebook per protestare contro il regime del presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir e, come i loro omologhi egiziani e tunisini, avevano deciso di trasferire la protesta dalla piazza virtuale a quella reale.
Ma quando i manifestanti si sono trovati sul luogo dell’appuntamento, hanno avuto una brutta sorpresa: ad attenderli non c’erano degli altri oppositori, ma la polizia. La pagina Facebook, secondo quanto racconta il blog iRevolution di Patrick Meier, direttore dell’unità di Crisis Mapping della società di software Ushahidi (celebre per averi ideato un programma usato in tutto il mondo per coordinare i soccorsi in caso di catastrofi), sarebbe stata infatti creata dal governo stesso, per stanare i dissidenti e prenderli in trappola al momento opportuno. Molti di questi attivisti, secondo quanto racconta la Federazione Internazionale per i Diritti Umani, sarebbero stati poi torturati e costretti, fra l’altro, a rivelare le proprie credenziali di accesso al social network. Lo stesso Al-Bashir ha affermato di voler accelerare l'elettrificazione delle aree rurali del Paese in modo che “i giovani cittadini usino i computer e Internet per combattere l'opposizione attraverso i siti di social networking come Facebook”.
La mossa del governo sudanese, attuata alla fine di gennaio, rappresenta un salto di qualità nelle strategie adoperate dai regimi repressivi per contrastare l’attivismo digitale, improntate finora a un atteggiamento più cauto, anche se ugualmente pericoloso. Il governo egiziano, nei giorni della rivolta che ha portato alla cacciata dell’ex presidente Mubarak, ha adoperato Twitter e Facebook per scoprire i nomi dei partecipanti e creare un elenco di persone da tenere sotto controllo (oltre a utilizzare il social network per attività di contro-propaganda).
Quello tunisino aveva cercato di carpire nome utente e password di chiunque si fosse collegato al social network fondato da Mark Zuckerberg attraverso un codice maligno “iniettato” dai provider di Stato al momento dell’accesso al sito. Gli ingegneri dell’azienda di Palo Alto, accortisi del problema, furono costretti aD adottare una serie di contromisure per tutelare gli utenti, in primis, l’introduzione del protocollo “https”, la connessione criptata usata normalmente dagli istituti bancari, per ogni richiesta di login al sito.
Oltre a ciò, i tecnici di Facebook istituirono una sorta di posto di blocco per gli utenti che si connettevano nuovamente al sito poco dopo aver effettuato il logout; veniva loro richiesto di identificare le foto dei loro amici, assegnando a ciascuna un nome e un cognome. In questo modo, si sperava di bloccare gli accessi illegittimi, ove il regime avesse già avuto modo di “hackerare” gli account dei dissidenti.
Simili espedienti sono però del tutto inutili per fronteggiare iniziative come quella messa in atto dal governo Sudan che si è distinto inoltre per aver incitato i seguaci del presidente in carica ad iscriversi a Facebook per contrastare l’attività dei suoi oppositori.
La vicenda ripropone i dubbi sul ruolo dei social network in Paesi dominati da regimi autoritari. Se la gran parte dei media ha sempre celebrato, e ancor più negli ultimi tempi, il ruolo di Twitter e affini nel promuovere la democrazia, alcuni commentatori, su tutti il noto studioso Evgeny Morozov, da tempo mettono in guardia sui possibili risvolti negativi di quelle che possono essere definite delle armi a doppio taglio e su questo argomento ha appena pubblicato un libro. Secondo Morozov, i social network, senza volerlo hanno reso più agevole la raccolta di dati sui dissidenti. “Anche una piccola falla nella sicurezza di un profilo Facebook può compromettere la sicurezza di molti altri”.
Questo anche perché Facebook non consente l’utilizzo di account anonimi o di pseudonimi. Gli attivisti che avevano provato a usare dei nickname si sono visti ben presto cancellare gli account. Dove non c’è libertà di espressione, utilizzare il proprio vero nome vuol dire però esporsi a rappresaglie e conseguenze anche molto spiacevoli. Sono stati fatti e sono in corso dei tentativi per indurre Facebook a fare delle eccezioni alla sua politica di autenticazione, ma finora senza molto successo.
Per questo gli attivisti più accorti sono passati a network che consentono l’anonimato, come la rete sociale open source Crabgrass oppure, come accaduto in Colombia per la marcia contro le Farc hanno usato Facebook soltanto nelle fasi iniziali dell’organizzazione della protesta, per poi coordinare il resto dell’iniziativa attraverso un miscuglio di metodi tradizionali e digitali: Skype, email e programmi di chat, abbinati ai classici volantini e al buon vecchio passaparola.
Si erano iscritti a una pagina Facebook per protestare contro il regime del presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir e, come i loro omologhi egiziani e tunisini, avevano deciso di trasferire la protesta dalla piazza virtuale a quella reale.
Ma quando i manifestanti si sono trovati sul luogo dell’appuntamento, hanno avuto una brutta sorpresa: ad attenderli non c’erano degli altri oppositori, ma la polizia. La pagina Facebook, secondo quanto racconta il blog iRevolution di Patrick Meier, direttore dell’unità di Crisis Mapping della società di software Ushahidi (celebre per averi ideato un programma usato in tutto il mondo per coordinare i soccorsi in caso di catastrofi), sarebbe stata infatti creata dal governo stesso, per stanare i dissidenti e prenderli in trappola al momento opportuno. Molti di questi attivisti, secondo quanto racconta la Federazione Internazionale per i Diritti Umani, sarebbero stati poi torturati e costretti, fra l’altro, a rivelare le proprie credenziali di accesso al social network. Lo stesso Al-Bashir ha affermato di voler accelerare l'elettrificazione delle aree rurali del Paese in modo che “i giovani cittadini usino i computer e Internet per combattere l'opposizione attraverso i siti di social networking come Facebook”.
La mossa del governo sudanese, attuata alla fine di gennaio, rappresenta un salto di qualità nelle strategie adoperate dai regimi repressivi per contrastare l’attivismo digitale, improntate finora a un atteggiamento più cauto, anche se ugualmente pericoloso. Il governo egiziano, nei giorni della rivolta che ha portato alla cacciata dell’ex presidente Mubarak, ha adoperato Twitter e Facebook per scoprire i nomi dei partecipanti e creare un elenco di persone da tenere sotto controllo (oltre a utilizzare il social network per attività di contro-propaganda).
Quello tunisino aveva cercato di carpire nome utente e password di chiunque si fosse collegato al social network fondato da Mark Zuckerberg attraverso un codice maligno “iniettato” dai provider di Stato al momento dell’accesso al sito. Gli ingegneri dell’azienda di Palo Alto, accortisi del problema, furono costretti aD adottare una serie di contromisure per tutelare gli utenti, in primis, l’introduzione del protocollo “https”, la connessione criptata usata normalmente dagli istituti bancari, per ogni richiesta di login al sito.
Oltre a ciò, i tecnici di Facebook istituirono una sorta di posto di blocco per gli utenti che si connettevano nuovamente al sito poco dopo aver effettuato il logout; veniva loro richiesto di identificare le foto dei loro amici, assegnando a ciascuna un nome e un cognome. In questo modo, si sperava di bloccare gli accessi illegittimi, ove il regime avesse già avuto modo di “hackerare” gli account dei dissidenti.
Simili espedienti sono però del tutto inutili per fronteggiare iniziative come quella messa in atto dal governo Sudan che si è distinto inoltre per aver incitato i seguaci del presidente in carica ad iscriversi a Facebook per contrastare l’attività dei suoi oppositori.
La vicenda ripropone i dubbi sul ruolo dei social network in Paesi dominati da regimi autoritari. Se la gran parte dei media ha sempre celebrato, e ancor più negli ultimi tempi, il ruolo di Twitter e affini nel promuovere la democrazia, alcuni commentatori, su tutti il noto studioso Evgeny Morozov, da tempo mettono in guardia sui possibili risvolti negativi di quelle che possono essere definite delle armi a doppio taglio e su questo argomento ha appena pubblicato un libro. Secondo Morozov, i social network, senza volerlo hanno reso più agevole la raccolta di dati sui dissidenti. “Anche una piccola falla nella sicurezza di un profilo Facebook può compromettere la sicurezza di molti altri”.
Questo anche perché Facebook non consente l’utilizzo di account anonimi o di pseudonimi. Gli attivisti che avevano provato a usare dei nickname si sono visti ben presto cancellare gli account. Dove non c’è libertà di espressione, utilizzare il proprio vero nome vuol dire però esporsi a rappresaglie e conseguenze anche molto spiacevoli. Sono stati fatti e sono in corso dei tentativi per indurre Facebook a fare delle eccezioni alla sua politica di autenticazione, ma finora senza molto successo.
Per questo gli attivisti più accorti sono passati a network che consentono l’anonimato, come la rete sociale open source Crabgrass oppure, come accaduto in Colombia per la marcia contro le Farc hanno usato Facebook soltanto nelle fasi iniziali dell’organizzazione della protesta, per poi coordinare il resto dell’iniziativa attraverso un miscuglio di metodi tradizionali e digitali: Skype, email e programmi di chat, abbinati ai classici volantini e al buon vecchio passaparola.