Nel 2007, l’OMT ha registrato “846 milioni di arrivi turistici internazionali”. In realtà, a partire è solo il 2,5% della popolazione mondiale. Lo racconta Jennie Dielemans in “Benvenuti in Paradiso” (Bruno Mondadori). Leggi un estratto del reportage
di Jennie Dielemans
«The world is yours» annunciano a squilli di trombe le agenzie viaggi, nei loro cataloghi. E hanno ragione.
Il mondo è davvero nostro e l’industria turistica batte tutti i record. Mai prima d’ora abbiamo passato così tante vacanze all’estero.
Nel 2007, l’Organizzazione Mondiale del Turismo ha potuto registrare nel suo rapporto «846 milioni di arrivi turistici internazionali », oltre 45 milioni in più rispetto all’anno precedente.
Considerando soltanto questa cifra, potrebbe sembrare che i turisti costitui scano un settimo della popolazione mondiale e cioè che una persona su sette, almeno una volta all’anno, si metta in coda ai cancelli aeroportuali, pronta per andarsene finalmente via dalla pazza folla e volare verso il suo paradiso.
Ma non è così, neppure lontanamente. A concedersi un viaggio di piacere sono principalmente gli abitanti di pochissimi paesi del mondo: svedesi, tedeschi, americani, inglesi, giapponesi, cinesi, francesi...
Ad andare in vacanza all’estero è circa il 2,5% della popolazione mondiale. Il restante 97,5% non se lo può permettere. Ma il mondo è nostro. Voi e io, insieme ai nostri compari del ceto più abbiente del mondo, ci troviamo di fronte a una magnifica tavola imbandita, alla quale possiamo servirci come e quando più ci aggrada, e ne approfittiamo sempre più spesso.
«C’è il papà che passa il natale in Thailandia, il collega che passa il mese di maggio in Croazia per prendere parte a un congresso, il genero che festeggia il settantesimo compleanno del suocero con una crociera a Maiorca in agosto e c’è chi si concede un paio di settimane in una villa a Creta insieme a un amico di famiglia.» Così scrive Apollo nel catalogo estivo del 2008, terminando poi con la domanda: «E tu? Quale sei di questi?».
Voi e io abbiamo diritto al pianeta che ci appartiene e ci sembra ovvia la possibilità di prenderci una pausa e andare in giro per il mondo. Passiamo tutto un anno a sognare le nostre rosee vacanze, fantastichiamo, facciamo progetti: dobbiamo dedicare del tempo ai figli e agli amici, alla nostra vita sessuale e anche – finalmente – all’agognato riposo. «Perché voi valete.»
L’industria turistica ci vende proprio il relax, la libertà e l’appagamento che desideriamo, ci offre soluzioni sobrie o lussuose, tranquille o avventurose, all-inclusive oppure exclusive. Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. E le cose che scegliamo sono status symbol da sventolare sotto il naso delle persone che ci circondano, una volta ritornati a casa: i luoghi esotici e le esperienze “originali” hanno un altissimo valore nella nostra eterna competizione per sembrare più viaggiatori che turisti. Il backpacker mostra orgoglioso la sua maglietta cambogiana con la scritta “Danger! Mines!” sul dorso, perché lui è stato in Cambogia, conosce la storia spaventosa dei campi minati e ha finalmente l’occasione di raccontarcela.
E al vostro ritorno, potete fare una chiacchierata con la coppia che è stata a Playa del Carmen dieci anni fa «prima che fosse troppo tardi, prima che diventasse un luna-park per turisti», oppure con la donna che per il secondo anno di fila ha affittato una casa nella Repubblica Dominicana, fiera di avere stretto amicizia con la popolazione locale e soprattutto con tale José.
Sulla Bangla Road di Phuket, il lenone stoccolmese Christer consiglia i suoi clienti su quale linea di autocorriere li porterà alle spiagge più incontaminate, ai paradisi più vergini, affinché ne possano essere i padroni, anche solo per qualche giorno. Quel che ricerchiamo è il paradiso incontaminato. Ma quel che creiamo è Bangla Road.
Prendiamo immediatamente il comando, come se per noi fosse un’ovvietà, trasformiamo il luogo a seconda delle nostre esigenze e fantasie. Sulla via Khao San di Bangkok vogliamo trovare pantaloni da pescatore thailandese e farci fare tatuaggi temporanei e dreadlocks, il tutto a poco prezzo. A Huê´ andiamo alla ricerca dei bar della zona smilitarizzata, dove possiamo imitare la parlata del capitano Willard e sfoggiare altre pillole di cultura popolare. A Phuket possiamo viaggiare su un tuk-tuk con il logo di un quotidiano svedese e cenare al ristorante Vitaporn, che offre «i migliori piatti thailandesi di tutta la città».
Il modello di turismo di massa che si è creato a Gran Canaria, e dal quale nell’ultimo decennio ci siamo tanto sforzati di prendere le distanze, è lo stesso che poi abbiamo esportato in tutto il resto del mondo: in Grecia, in Messico, in Thailandia.
Scopriamo un posto, lo ricostruiamo da cima a fondo e quando poi lo abbiamo spremuto fino all’ultima goccia ci lamentiamo che è diventato troppo turistico e che non ci piace più e proseguiamo l’opera altrove. Soltanto qualche mese fa, un turista in Thailandia mi diceva: «Ormai è un posto come un altro, questa spiaggia potrebbe benissimo essere in Turchia, ci sono gli stessi souvenir, gli stessi ristoranti». Ecco perché non sorprende che, nei sondaggi promossi dalle agenzie turistiche, scriviamo sul questionario che la cosa in assoluto più importante in tutta la nostra vacanza è l’albergo: siamo diventati consumatori abituali, conosciamo le mete delle nostre vacanze e non ci interessa nemmeno più in quale parte del mondo si trovino.
Durante la vacanza, inoltre, le regole del gioco cambiano radicalmente. Ci trasportiamo lontano dalla quotidianità, in un universo parallelo, nel quale beviamo più del solito, andiamo in moto senza casco, e paghiamo per fare sesso. Normalmente non faremmo mai queste cose, nemmeno per sogno, ma qui tutto è permesso e quel che succede durante la vacanza esce di scena non appena torniamo a casa nostra.
Questo nostro comportamento, indipendentemente dalle preferenze, si giustifica con il nostro diritto di prenderci una pausa, di trattarci bene e di concederci qualche cosa, che può essere un tequila sunrise o il corpo di un’altra persona.
La nostra immagine stereotipica della persona che compra il sesso è quella di un vecchio ciccione tedesco, ma chiunque sia mai stato a Phuket, a Boracay o a Natal sa che non è così: certo, c’è il vecchio ciccione tedesco, ma c’è anche la compagnia di giovanotti stoccolmesi, la coppia sposata di Göteborg e l’anziana signora di Liverpool. Banchettiamo in paradiso e ci aspettiamo anche la gratitudine di chi ci serve i piatti in tavola.
A un anno dallo tsunami, un giornale svedese pubblicava un reportage sulla Thailandia, titolando: «Tornate da noi, così potremo sorridere di nuovo». L’idea corrente è che il nostro consumo di questi luoghi sia una buona azione, un atto di solidarietà, e che quelli che ci fanno da servi sulle spiagge dei paesi poveri debbano gioire del fatto che abbiamo scelto proprio loro.
Eppure la nostra scelta non è veramente mirata, un luogo vale l’altro: basta una catastrofe naturale, una variazione nell’andamento del dollaro, un attacco terroristico, o anche semplicemente la nostra consueta bramosia di un nuovo luogo incontaminato, e le agenzie turistiche si volgono in altre direzioni. Già, perché siamo noi a dirigere l’industria turistica e non le popolazioni locali che si sono dovute adattare a essa. Il rapporto che queste popolazioni hanno con noi è ben rappresentato dalla pubblicità di una piccola compagnia aerea filippina, che organizza voli turistici tra le varie isole: la fotografia di un aeroplano e di una giovane donna in bikini, con la bocca semiaperta, e lo slogan «You can take me any time». L’industria turistica vende cose che non possiede: confeziona sogni, ma vende spiagge, colline, persone e culture e costringe i paesi poveri a uniformarsi alle nostre esigenze, di qualunque natura esse siano. La fantasia di un ampio litorale deserto spazza via un’importantissima mangrovia e porge le armi alla polizia turistica che scaccia la popolazione locale dalle sue spiagge.
Gli alberghi vengono costruiti dagli schiavi del nostro tempo: i birmani in Thailandia, gli haitiani nella Repubblica Dominicana. E in molti dei paesi in cui trascorriamo le vacanze e i cui abitanti non hanno acqua a sufficienza, migliaia di litri vengono utilizzati per curare il tappeto erboso dove noi andiamo a giocare a golf. Ma a noi tutto questo non interessa. L’accordo tra il produttore e il consumatore, e cioè tra l’agenzia di viaggi e il turista, è semplice: noi non facciamo domande e loro non devono darci risposte. Dopotutto, non siamo forse in vacanza?
©2010, Pearson Italia. Tutti i diritti riservati
Tratto da Jennie Dielemans, Benvenuti in paradiso, Bruno Mondadori, pp.208, euro 18
Jennie Dielemans, nata nel 1972, è una giornalista svedese. Tra il 2005 e il 2008 ha viaggiato per il mondo, visitando le più popolari aree turistiche internazionali per realizzare questo reportage.
«The world is yours» annunciano a squilli di trombe le agenzie viaggi, nei loro cataloghi. E hanno ragione.
Il mondo è davvero nostro e l’industria turistica batte tutti i record. Mai prima d’ora abbiamo passato così tante vacanze all’estero.
Nel 2007, l’Organizzazione Mondiale del Turismo ha potuto registrare nel suo rapporto «846 milioni di arrivi turistici internazionali », oltre 45 milioni in più rispetto all’anno precedente.
Considerando soltanto questa cifra, potrebbe sembrare che i turisti costitui scano un settimo della popolazione mondiale e cioè che una persona su sette, almeno una volta all’anno, si metta in coda ai cancelli aeroportuali, pronta per andarsene finalmente via dalla pazza folla e volare verso il suo paradiso.
Ma non è così, neppure lontanamente. A concedersi un viaggio di piacere sono principalmente gli abitanti di pochissimi paesi del mondo: svedesi, tedeschi, americani, inglesi, giapponesi, cinesi, francesi...
Ad andare in vacanza all’estero è circa il 2,5% della popolazione mondiale. Il restante 97,5% non se lo può permettere. Ma il mondo è nostro. Voi e io, insieme ai nostri compari del ceto più abbiente del mondo, ci troviamo di fronte a una magnifica tavola imbandita, alla quale possiamo servirci come e quando più ci aggrada, e ne approfittiamo sempre più spesso.
«C’è il papà che passa il natale in Thailandia, il collega che passa il mese di maggio in Croazia per prendere parte a un congresso, il genero che festeggia il settantesimo compleanno del suocero con una crociera a Maiorca in agosto e c’è chi si concede un paio di settimane in una villa a Creta insieme a un amico di famiglia.» Così scrive Apollo nel catalogo estivo del 2008, terminando poi con la domanda: «E tu? Quale sei di questi?».
Voi e io abbiamo diritto al pianeta che ci appartiene e ci sembra ovvia la possibilità di prenderci una pausa e andare in giro per il mondo. Passiamo tutto un anno a sognare le nostre rosee vacanze, fantastichiamo, facciamo progetti: dobbiamo dedicare del tempo ai figli e agli amici, alla nostra vita sessuale e anche – finalmente – all’agognato riposo. «Perché voi valete.»
L’industria turistica ci vende proprio il relax, la libertà e l’appagamento che desideriamo, ci offre soluzioni sobrie o lussuose, tranquille o avventurose, all-inclusive oppure exclusive. Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. E le cose che scegliamo sono status symbol da sventolare sotto il naso delle persone che ci circondano, una volta ritornati a casa: i luoghi esotici e le esperienze “originali” hanno un altissimo valore nella nostra eterna competizione per sembrare più viaggiatori che turisti. Il backpacker mostra orgoglioso la sua maglietta cambogiana con la scritta “Danger! Mines!” sul dorso, perché lui è stato in Cambogia, conosce la storia spaventosa dei campi minati e ha finalmente l’occasione di raccontarcela.
E al vostro ritorno, potete fare una chiacchierata con la coppia che è stata a Playa del Carmen dieci anni fa «prima che fosse troppo tardi, prima che diventasse un luna-park per turisti», oppure con la donna che per il secondo anno di fila ha affittato una casa nella Repubblica Dominicana, fiera di avere stretto amicizia con la popolazione locale e soprattutto con tale José.
Sulla Bangla Road di Phuket, il lenone stoccolmese Christer consiglia i suoi clienti su quale linea di autocorriere li porterà alle spiagge più incontaminate, ai paradisi più vergini, affinché ne possano essere i padroni, anche solo per qualche giorno. Quel che ricerchiamo è il paradiso incontaminato. Ma quel che creiamo è Bangla Road.
Prendiamo immediatamente il comando, come se per noi fosse un’ovvietà, trasformiamo il luogo a seconda delle nostre esigenze e fantasie. Sulla via Khao San di Bangkok vogliamo trovare pantaloni da pescatore thailandese e farci fare tatuaggi temporanei e dreadlocks, il tutto a poco prezzo. A Huê´ andiamo alla ricerca dei bar della zona smilitarizzata, dove possiamo imitare la parlata del capitano Willard e sfoggiare altre pillole di cultura popolare. A Phuket possiamo viaggiare su un tuk-tuk con il logo di un quotidiano svedese e cenare al ristorante Vitaporn, che offre «i migliori piatti thailandesi di tutta la città».
Il modello di turismo di massa che si è creato a Gran Canaria, e dal quale nell’ultimo decennio ci siamo tanto sforzati di prendere le distanze, è lo stesso che poi abbiamo esportato in tutto il resto del mondo: in Grecia, in Messico, in Thailandia.
Scopriamo un posto, lo ricostruiamo da cima a fondo e quando poi lo abbiamo spremuto fino all’ultima goccia ci lamentiamo che è diventato troppo turistico e che non ci piace più e proseguiamo l’opera altrove. Soltanto qualche mese fa, un turista in Thailandia mi diceva: «Ormai è un posto come un altro, questa spiaggia potrebbe benissimo essere in Turchia, ci sono gli stessi souvenir, gli stessi ristoranti». Ecco perché non sorprende che, nei sondaggi promossi dalle agenzie turistiche, scriviamo sul questionario che la cosa in assoluto più importante in tutta la nostra vacanza è l’albergo: siamo diventati consumatori abituali, conosciamo le mete delle nostre vacanze e non ci interessa nemmeno più in quale parte del mondo si trovino.
Durante la vacanza, inoltre, le regole del gioco cambiano radicalmente. Ci trasportiamo lontano dalla quotidianità, in un universo parallelo, nel quale beviamo più del solito, andiamo in moto senza casco, e paghiamo per fare sesso. Normalmente non faremmo mai queste cose, nemmeno per sogno, ma qui tutto è permesso e quel che succede durante la vacanza esce di scena non appena torniamo a casa nostra.
Questo nostro comportamento, indipendentemente dalle preferenze, si giustifica con il nostro diritto di prenderci una pausa, di trattarci bene e di concederci qualche cosa, che può essere un tequila sunrise o il corpo di un’altra persona.
La nostra immagine stereotipica della persona che compra il sesso è quella di un vecchio ciccione tedesco, ma chiunque sia mai stato a Phuket, a Boracay o a Natal sa che non è così: certo, c’è il vecchio ciccione tedesco, ma c’è anche la compagnia di giovanotti stoccolmesi, la coppia sposata di Göteborg e l’anziana signora di Liverpool. Banchettiamo in paradiso e ci aspettiamo anche la gratitudine di chi ci serve i piatti in tavola.
A un anno dallo tsunami, un giornale svedese pubblicava un reportage sulla Thailandia, titolando: «Tornate da noi, così potremo sorridere di nuovo». L’idea corrente è che il nostro consumo di questi luoghi sia una buona azione, un atto di solidarietà, e che quelli che ci fanno da servi sulle spiagge dei paesi poveri debbano gioire del fatto che abbiamo scelto proprio loro.
Eppure la nostra scelta non è veramente mirata, un luogo vale l’altro: basta una catastrofe naturale, una variazione nell’andamento del dollaro, un attacco terroristico, o anche semplicemente la nostra consueta bramosia di un nuovo luogo incontaminato, e le agenzie turistiche si volgono in altre direzioni. Già, perché siamo noi a dirigere l’industria turistica e non le popolazioni locali che si sono dovute adattare a essa. Il rapporto che queste popolazioni hanno con noi è ben rappresentato dalla pubblicità di una piccola compagnia aerea filippina, che organizza voli turistici tra le varie isole: la fotografia di un aeroplano e di una giovane donna in bikini, con la bocca semiaperta, e lo slogan «You can take me any time». L’industria turistica vende cose che non possiede: confeziona sogni, ma vende spiagge, colline, persone e culture e costringe i paesi poveri a uniformarsi alle nostre esigenze, di qualunque natura esse siano. La fantasia di un ampio litorale deserto spazza via un’importantissima mangrovia e porge le armi alla polizia turistica che scaccia la popolazione locale dalle sue spiagge.
Gli alberghi vengono costruiti dagli schiavi del nostro tempo: i birmani in Thailandia, gli haitiani nella Repubblica Dominicana. E in molti dei paesi in cui trascorriamo le vacanze e i cui abitanti non hanno acqua a sufficienza, migliaia di litri vengono utilizzati per curare il tappeto erboso dove noi andiamo a giocare a golf. Ma a noi tutto questo non interessa. L’accordo tra il produttore e il consumatore, e cioè tra l’agenzia di viaggi e il turista, è semplice: noi non facciamo domande e loro non devono darci risposte. Dopotutto, non siamo forse in vacanza?
©2010, Pearson Italia. Tutti i diritti riservati
Tratto da Jennie Dielemans, Benvenuti in paradiso, Bruno Mondadori, pp.208, euro 18
Jennie Dielemans, nata nel 1972, è una giornalista svedese. Tra il 2005 e il 2008 ha viaggiato per il mondo, visitando le più popolari aree turistiche internazionali per realizzare questo reportage.