L'inno dei Mondiali scritto dal rapper che difende i pirati
MondoSi chiama K'naan, vive in Canada, è nato a Mogadiscio. Canta la libertà ma strizza l'occhio alle scorribande sulle coste somale: "Sono la risposta ai trafficanti occidentali di rifiuti tossici"
di Luca Di Garbo
But K’Naan è un rapper canadese di origine somala. Ne sentiremo parlare presto ma soprattutto lo sentiremo cantare. Il suo brano “Wavin’ Flag song” è stato scelto come inno dei prossimi Mondiali in Sudafrica e verrà distribuito in 150 paesi. Un tormentone - assicurano gli addetti ai lavori - così come lo fu nel ’98 “La copa de la vida” di Ricky Martin.
Una scelta che però rischia di creare qualche imbarazzo a causa delle critiche piovute, soprattutto dal Regno Unito (Guardian, Telegraph), sull’artista per i suoi commenti alla pirateria in Somalia.
Una terra che K’Naan ha abbandonato all’età di 13 anni e che è sempre presente nei suoi testi: “Quando sarò più grande”, recita il ritornello dell’inno mondiale, “sarò più forte e mi chiameranno libertà come una bandiera che sventola”. La bandiera in questione è quella nazionale somala, una stella a cinque punte bianca su uno sfondo azzurro brillante. Un vessillo che però negli ultimi tempi è legato a doppio filo con quello dei pirati che imperversano nelle acque dell’Oceano Indiano. Quegli stessi pirati verso cui K’naan non nasconde le sue simpatie e che definisce come dei guardacoste: “La pirateria nel mio paese è una risposta comprensibile a un problema profondo”, ha dichiarato in un’intervista a una radio americana, “le bande dei pirati sono nate in realtà come flotte di vigilantes per impedire alle società occidentali di scaricare rifiuti tossici e di rubare il pesce nelle nostre acque”.
Secondo i dati pubblicati dall’International Maritime Bureau di Hong Kong le navi assaltate dai pirati somali nel 2009 sono state 214. I cargo sequestrati sono stati 47; 36 dei quali rilasciati dopo il pagamento di un riscatto che va dai 3 ai 4 milioni di dollari (tra questi il Buccaneer con equipaggio italiano), mentre ad oggi 13 mercantili risultano ancora nelle mani dei pirati. Tuttavia K’naan sostiene che “la maggior parte dei somali non può facilmente condannare la pirateria” proprio per il fatto che queste persone fungono da sentinelle ambientali contro lo sfruttamento dell’Occidente nello smaltimento dei rifiuti. Ed è in seguito allo tsunami del 2004 e al ritrovamento sulle coste somale di scorie pericolose rilasciate da alcuni container - fatto riportato a suo tempo dal Times - che avrebbe avuto inizio l’escalation della pirateria che ha coinvolto anche imbarcazioni italiane.
But K’naan oggi è un cittadino canadese che osserva a distanza ciò che succede nella sua terra d’origine. Il suo è un passato travagliato. Nel ’91 riuscì a fuggire insieme alla madre negli Stati Uniti, ottenendo il visto di rifugiato politico proprio il giorno in cui Washington decise di chiudere la sua ambasciata in Somalia ed evacuare tutto il personale. Allora per le strade di Mogadiscio impazzava la guerra civile. Il rapper somalo dice ancora oggi di soffrire del “senso di colpa del superstite” avendo visto morire diversi amici con i suoi occhi e avendo avuto una mitragliatrice in mano: “Dio mi ha sempre protetto, la cosa più grande non è che io sia ancora vivo, ma che io non abbia mai ucciso nessuno”.
Guarda il video:
But K’Naan è un rapper canadese di origine somala. Ne sentiremo parlare presto ma soprattutto lo sentiremo cantare. Il suo brano “Wavin’ Flag song” è stato scelto come inno dei prossimi Mondiali in Sudafrica e verrà distribuito in 150 paesi. Un tormentone - assicurano gli addetti ai lavori - così come lo fu nel ’98 “La copa de la vida” di Ricky Martin.
Una scelta che però rischia di creare qualche imbarazzo a causa delle critiche piovute, soprattutto dal Regno Unito (Guardian, Telegraph), sull’artista per i suoi commenti alla pirateria in Somalia.
Una terra che K’Naan ha abbandonato all’età di 13 anni e che è sempre presente nei suoi testi: “Quando sarò più grande”, recita il ritornello dell’inno mondiale, “sarò più forte e mi chiameranno libertà come una bandiera che sventola”. La bandiera in questione è quella nazionale somala, una stella a cinque punte bianca su uno sfondo azzurro brillante. Un vessillo che però negli ultimi tempi è legato a doppio filo con quello dei pirati che imperversano nelle acque dell’Oceano Indiano. Quegli stessi pirati verso cui K’naan non nasconde le sue simpatie e che definisce come dei guardacoste: “La pirateria nel mio paese è una risposta comprensibile a un problema profondo”, ha dichiarato in un’intervista a una radio americana, “le bande dei pirati sono nate in realtà come flotte di vigilantes per impedire alle società occidentali di scaricare rifiuti tossici e di rubare il pesce nelle nostre acque”.
Secondo i dati pubblicati dall’International Maritime Bureau di Hong Kong le navi assaltate dai pirati somali nel 2009 sono state 214. I cargo sequestrati sono stati 47; 36 dei quali rilasciati dopo il pagamento di un riscatto che va dai 3 ai 4 milioni di dollari (tra questi il Buccaneer con equipaggio italiano), mentre ad oggi 13 mercantili risultano ancora nelle mani dei pirati. Tuttavia K’naan sostiene che “la maggior parte dei somali non può facilmente condannare la pirateria” proprio per il fatto che queste persone fungono da sentinelle ambientali contro lo sfruttamento dell’Occidente nello smaltimento dei rifiuti. Ed è in seguito allo tsunami del 2004 e al ritrovamento sulle coste somale di scorie pericolose rilasciate da alcuni container - fatto riportato a suo tempo dal Times - che avrebbe avuto inizio l’escalation della pirateria che ha coinvolto anche imbarcazioni italiane.
But K’naan oggi è un cittadino canadese che osserva a distanza ciò che succede nella sua terra d’origine. Il suo è un passato travagliato. Nel ’91 riuscì a fuggire insieme alla madre negli Stati Uniti, ottenendo il visto di rifugiato politico proprio il giorno in cui Washington decise di chiudere la sua ambasciata in Somalia ed evacuare tutto il personale. Allora per le strade di Mogadiscio impazzava la guerra civile. Il rapper somalo dice ancora oggi di soffrire del “senso di colpa del superstite” avendo visto morire diversi amici con i suoi occhi e avendo avuto una mitragliatrice in mano: “Dio mi ha sempre protetto, la cosa più grande non è che io sia ancora vivo, ma che io non abbia mai ucciso nessuno”.
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