Il sequestro degli italiani: l'Egitto tra turismo e jihad

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L'analisi di Letizia Leviti, giornalista di SKY TG24, sul giallo del rapimento degli 11 turisti stranieri nei pressi della diga di Assuan, ai confini con il Sudan. L'incertezza delle notizie rispecchia la complessità del Paese

Vicenda complessa. Perché complesso è l’Egitto, dove 11 turisti sono stati rapiti: 5 italiani, 5 tedeschi e un romeno. Basta guardare il flusso di notizie: le conferme e le smentite che si rincorrono e finiscono per equivalersi. Voci che vengono da fonti autorevoli del giornalismo e della politica. Voci contrarie: da una parte  Al Jazeera – fonte di per sé attendibile, radicatissima nel territorio – ha dato la notizia della liberazione e, dall’altra, il ministro del Turismo egiziano, Zoheir Garrana, si è speso per dire che no, non è così. E soprattutto che i rapiti sono in territorio sudanese. Come può essere successo? Un tentativo di liberarli c’è stato, ma qualcosa non ha funzionato. Chiaro. Magari lì, proprio al confine, quando ancora l’Egitto qualcosa poteva fare.
Ora hanno minacciato di ucciderli, se ci sarà un blitz militare. Hanno chiesto un riscatto subito, dai 6 ai 15 milioni di euro: nessuna connotazione politica. Nessuna connotazione politica? Sì e no. Scrivo sì perché chi ha rapito i turisti e ha chiesto un riscatto certo non ha la dispensa piena a casa e nemmeno è in trattativa per l’acquisto di una villa: povertà nera. Scrivo no perché, in un contesto come la striscia di terra tra Egitto, Sudan e Libia non c’è niente che non abbia una connotazione politica: quel che succede è il risultato matematico del contesto. Quali sono le regole per separare banditismo e terrorismo in quell’area, dove anche le istituzioni non sono così chiaramente classificabili in democratiche  o antidemocratiche, filo-jihad o filoccidentali? Al di là dell’accezione che si può avere di democrazia, i gruppi criminali sono solo livelli di un sistema. Va da sé che siano anche profondamente diversi, ma strettamente uniti, spesso gradini di una scala. Non la stessa cosa, ma simili. Quindi? Il gruppo che detiene gli ostaggi potrebbe cederli ad un altro gruppo, politicizzato, che potrebbe trarne anche un bottino ideologico. Lo scenario si complicherebbe e non poco. Per questo si chiede silenzio sulla vicenda: non bisogna sbagliare una mossa, il riscatto da pagare in realtà è un ricatto. Anche ideologico. Ma tutto questo in Egitto? Nel Paese del mare, del cielo, del vento, della passione estiva e dei Faraoni, nel deserto del quale cercavo vanamente i confini con lo sguardo qualche mese fa, lì dove tutti gli operatori turistici ci consigliano di andare? Sì, è dentro l’acqua con cui vengono lavati ad esempio i pomodori, che poi ti fanno male.
Mi spiego. E’ un Paese che è in tensione verso un modello, che rimane un modello. Con un Occidente che, impaurito dall’avvento del potere jihadista, lo sostiene nella sua tensione, talvolta dimenticando che di tensione, di ambizione, di desiderio di democrazia si tratta. Non certo di uno stato reale. Quante somiglianze, in questo, con il Pakistan, altro scudo da tenere alzato in uno scenario complesso . Barriere contro quella che l’Occidente considera la deriva jihadista, ma contro quelle stesse barriere rimbalza forse anche la crescita effettiva di quei Paesi, divisi tra l’essere e il dover essere.

 

 

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