Ilva, il Gup di Milano: “Famiglia Riva non provocò bancarotta”

Lombardia
Foto di archivio (ANSA)

Secondo il giudice, tra il 1995 e il 2012 la società ha fatto investimenti "in materia di ambiente" per "oltre un miliardo di euro" e per "oltre tre miliardi di euro per l'ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti" 

Nella gestione dell'Ilva di Taranto da parte della famiglia Riva, tra il 1995 e il 2012, la società ha fatto investimenti "in materia di ambiente" per "oltre un miliardo di euro" e per "oltre tre miliardi di euro per l'ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti" e non c'è stato il "contestato depauperamento generale della struttura", scrive il Gup, Lidia Castellucci, nelle motivazioni della sentenza con la quale, a luglio, ha assolto "perché il fatto non sussiste" Fabio Riva (uno dei componenti della famiglia ex proprietaria dell'Ilva), assistito dagli avvocati Salvatore Scuto e Gian Paolo Del Sasso, da due accuse di bancarotta per il crac della holding Riva Fire.

La sentenza di assoluzione

In un passaggio delle 127 pagine di motivazioni della sentenza si legge che "alla luce dell'ammontare dei costi complessivamente sostenuti" dai Riva "unitamente alla sostanziale conformità alle prescrizioni AIA (autorizzazione integrata ambientale, ndr) del 2011, è evidente come non possa ravvisarsi quel contestato depauperamento, dal momento che gli elementi in atti", portati dalla difesa, "contrastano con tale conclusione". Il Gup, inoltre, spiega che non è "giustificata" "l'affermazione dei commissari" dell'ex Ilva, contenuta in una relazione, secondo la quale "la mancanza di interventi da parte della famiglia Riva nel corso del ventennio di propria gestione determinava una perdita di valore degli impianti dello stabilimento di Taranto e, più in generale, del patrimonio aziendale". Tra le accuse di bancarotta, infatti, la Procura milanese contestava ai Riva di aver omesso di adottare le necessarie misure per la tutela ambientale, di aver, quindi, risparmiato su costi e investimenti e di aver così "depauperato" la "struttura produttiva non adeguandola alla normativa vigente". Del tutto opposta la lettura del giudice milanese, secondo cui "l'unico depauperamento che può essere astrattamente ipotizzato è quello relativo al mancato rispetto della normativa europea prescritta con l'Aia riesaminata", normativa che però dava agli Stati membri "un considerevole e necessario tempo di adeguamento alle nuove e gravose prescrizioni".

Il processo

Nell'ottobre 2017 Fabio Riva e il fratello Nicola Riva si erano visti respingere da un altro Gup la richiesta di patteggiamento (rispettivamente a 5 e a 2 anni), concordata con la Procura, per "incongruità" della pena. La prima bocciatura da parte di un altro giudice risaliva al febbraio 2017. Nel febbraio 2018, poi, Nicola Riva aveva patteggiato 3 anni, mentre Fabio aveva scelto la strada dell'abbreviato. Nel maggio 2017 aveva patteggiato 2 anni e mezzo Adriano Riva, fratello di Emilio, l'ex patron del colosso siderurgico scomparso nel 2014, firmando anche la transazione di rinuncia a quegli 1,1 miliardi sequestrati dai pm nell'inchiesta sul crac della holding. Somma che, con l'aggiunta di altri 230 milioni versati dalla famiglia, era stata destinata in gran parte per la bonifica ambientale dell'area su cui sorge lo stabilimento tarantino.

All'Ilva c'era un "progetto di rilancio"

Non si "ravvisano quegli 'indici di fraudolenza' necessari a dar corpo" alla "prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei suoi creditori", ma c'era anzi un "progetto di rilancio" scrive poi il Gup. La Procura di Milano nei capi di imputazione per bancarotta aveva contestato tutta una serie di operazioni societarie che avrebbero generato "un illecito arricchimento" della famiglia Riva ai danni dell'Ilva (vennero effettuati sequestri di somme all'estero). Nelle motivazioni, però, il magistrato milanese boccia in toto la tesi dell'accusa. "Il contesto in cui l'impresa ha operato - scrive il giudice - caratterizzato da performance e risultati economici che hanno condotto la società a posizionarsi in vetta al mercato siderurgico europeo, e la enorme distanza temporale tra le condotte in contestazione (poste in essere nel '95-'97) e lo squilibrio tra attività e passività, allocabile nel 2013, inducono a dubitare fortemente della effettiva messa in pericolo della garanzia dei creditori, elidendo il portato dannoso dell'azione". Allo stesso modo, per il Gup, l'operazione di "scissione" societaria, effettuata nel marzo 2012, non fu fraudolenta. Scissione che, in realtà, "rivelava un concreto intento di prosecuzione dell'attività imprenditoriale e appariva funzionale" a porre le "basi per alleanze strategiche con soggetti terzi". Il fatto, prosegue il giudice, che "tale progetto di rilancio non si sia verificato per l'avvenuto commissariamento ambientale di Ilva non priva" di "validità economica la scelta operata" dai Riva.  

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