IL LIBRO DELLA SETTIMANA Il 2 febbraio 1950 il Senato decide di non convalidare l'elezione dello scrittore nelle liste del Fronte democratico popolare a causa di una norma sui legami con il fascismo. Quella votazione, riletta oggi, ci suggerisce molto su ciò che siamo sempre stati
Partiamo dalla cronaca: il 2 febbraio 1950 il Senato decide di non convalidare l'elezione di Massimo Bontempelli, da due anni a Palazzo Madama nelle liste del Fronte democratico popolare. Artefice del realismo magico, Bontempelli è uno degli scrittori più noti e influenti del Novecento italiano. Perde il seggio perché curatore, nel 1935, di un'antologia scolastica considerata di "propaganda fascista".
Nel dicembre del 1947 l'Assemblea costituente ha votato infatti una norma della legge elettorale (che a sua volta ne richiama un'altra transitoria della Costituzione) in cui sono previsti dei casi di ineleggibilità temporanee.
In quella lista, ci sono, tra gli altri, i membri del governo Mussolini e quelli del Consiglio nazionale fascista, le brigate nere e i componenti dei tribunali speciali fascisti, i gerarchi e i reparti speciali di Salò. E, con un colpo di coda finale, entrano pure "gli autori di libri e di testi scolastici di propaganda fascista", e a nulla vale l'obiezione secondo cui durante il ventennio una parte dei manuali fosse obbligatoriamente dedicata al Duce e al suo mito.
La norma e il colpo di coda parlamentare
Bontempelli cade dunque per questo inciso. Non conta che poco dopo la pubblicazione di quell'antologia si sia allontanato dal fascismo; non conta che lo abbia fatto anche con un discorso pubblico considerato dai gerarchi assai critico; e non conta neppure che nel 1938 abbia rifiutato di subentrare nella cattedra di un ebreo discriminato. Il 2 febbraio 1950 il Senato lo estromette dall'Aula, con un atteggiamento di radicale intransigenza che contrasta molto con il trattamento riservato in quegli stessi anni a molti persecutori antisemiti.
Gli applausi agli insulti
Quella vicenda è ora finita al centro di un breve libro a firma di Paolo Aquilanti e intitolato "Il caso Bontempelli" (pp. 186, euro 12). Sellerio, che lo pubblica, lo presenta come "una storia italiana", e in effetti l'interesse del libro nasce soprattutto dall'esemplarità di una vicenda che sconfina dal perimetro di una semplice ingiustizia o di una violenta querelle politica.
Nel libro, Aquilanti ricorda la strumentalità delle accuse, la perfidia di certi discorsi, l'ilarità scatenata dai mottetti e gli applausi nati dagli insulti pronunciati da colleghi in Aula. Rievoca così, ad esempio, il discorso di un senatore che a Palazzo Madama si dice convinto come ci sia "stato un momento in cui i partiti sceglievano tutte le cicche che trovavano per le strade e fra le tante cicche c'è stata anche quella". O riporta come un altro senatore storpi più volte il nome, chiamando Bontempelli Beltramelli, per aggiungere un tratto d'irrisione al suo discorso.
Ecco: la forza di questo saggio sta qui, nel far riaffiorare una violenza verbale venata da un moralismo incredibilmente contemporaneo. "Il caso Bontempelli" non è un'anticipazione di ciò che accadrà nell'Italia del dopoguerra. È una finestra che ci racconta ciò che siamo sempre stati, sfatando il mito retrotopico dei bei tempi andati.