Robecchi: “L’ironia è un’arguzia dello sguardo, per questo serve anche in un giallo”

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Filippo Maria Battaglia

Lo scrittore firma "Flora", ottavo romanzo con protagonista il suo personaggio più amato, Carlo Monterossi. E durante "Incipit", la rubrica di libri di Sky TG24, dice: "Una buona scrittura è un miscuglio di sensibilità, allenamento, orecchio e ritmo"

Cosa accade se una donna che non può vivere quaranta minuti senza un parrucchiere finisce rinchiusa sola in una stanza e per di più senza la sua manicure di fiducia? Se l'è chiesto Alessandro Robecchi in "Flora", il suo ottavo romanzo con protagonista il suo personaggio più popolare e amato, Carlo Monterossi, un autore di un programma tv seguito e discutibilissimo,  che qui ha a che fare con l’incredibile rapimento della conduttrice di quel programma (Flora, appunto).

Da qui prende le mosse questo noir che sin da subito porta con sé le stimmate di Robecchi: Milano e l'ironia. Inevitabile dunque che quest'intervista parta da qui, e in particolare da "una città che è stata raccontata benissimo in passato ma che negli ultimi decenni si è appiattita su un racconto perlopiù monodimensionale".  "Milano  -  dice Robecchi durante 'Incipit', la rubrica di libri di Sky TG24 - non può essere ridotta solo a moda, design ed efficienza.  E forse l’ultimo anno di chiusura e di paura cambierà la narrazione, rendendola un po’ più complessa e sfaccettata. Del resto, è un posto di un milione e mezzo di persone di notte, tre milioni di giorno, dunque è un organismo in movimento che non merita una fotografia statica".

"L'ironia, quasi una lingua"

Ecco perché per raccontarla, e per restiturine smagliature e contraddizioni, torna utile l'ironia, "un'arguzia dello sguardo" la chiama Robecchi, "quasi una lingua in sé che si aggiunge alla narrazione e al racconto ma che non impedisce che ci siano altre visioni".

"Io non ho un motto nobiliare né uno stemma - sorride - ma se lo avessi ci scriverei quella frase di Billy Wilder che dice 'Se proprio devi dire la verità, dilla in modo divertente'".

La disciplina della parola scritta

 

Robecchi, che con la scrittura ha fatto tante cose (radio, giornali, libri, programmi tv), spiega che non c'è quasi nulla di innato nella vita e che tra quelle poche cose non c'è la scrittura. "Credo che ci sia una disciplina della parola scritta - racconta - io l'ho affinata scrivendo praticamente tutti i giorni per trent’anni. Il giornalismo impone il rispetto delle lunghezze e delle distanze, è quasi un lavoro enigmistico". Poi aggiunge che, certo, "la narrativa è un’altra cosa, però io per esempio noto che quando cerco la parola giusta per qualche ora e alla fine la trovo, scopro che quella parola che mi pareva perfetta suona in realtà male e che era meglio un'altra. Una buona scrittura è un miscuglio di sensibilità, allenamento, orecchio e ritmo". 

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"Un buon noir apre delle intercapedini da cui guardare il mondo"

Come tutti i romanzi di Robecchi, pure "Flora" è pubblicato da Sellerio, e Sellerio significa anche Leonardo Sciascia, lo scrittore per cui il giallo “è una sorta di gabbia entro la quale si possono dire tantissime cose, compresa la radiografia del mondo moderno”. Tra questa capacità di descrizione (e di rappresentazione) e l'intrattenimento, Robecchi punta dritto sulla prima: "Un buon giallo deve essere anche un’isoletta su cui tu ti appoggi per qualche ora", premette; poi aggiunge che però "è soprattutto una specie di pretesto per mettere dei personaggi davanti  a una situazione estrema e parlare di alcune cosucce importanti nella nostra vita: la colpa, i buoni, i cattivi, il delitto, il dolore, la vendetta,  la giustizia. Io a un noir chiedo anche questo: aprire molte intercapedini dalle quali è possibile guardare il nostro mondo".

"Il tramonto del giallo di tipo enigmistico, quello classico nella stanza chiusa dove tu sai che c’è un trucco e devi trovarlo, ha lasciato spazio al noir moderno che un po’ descrive le nostre vite -  ricorda Robecchi - Non ci sono più trucchi da scovare, c’è solo da prendere e sbrogliare il bandolo di una matassa, una cosa difficile magari perché è difficile da leggere la realtà che ci sta attorno. E questo consente agli autori di giocare di più con i lettori, di avere con loro un rapporto, come dire ti racconto e non ti faccio indovinare, che è  una cosa molto diversa".

"Il trucco per non litigare con il proprio personaggio è non essere lui"

L'intervista sta per finire, ma prima che finisca non si può non parlare dei rischi di un exploit che dura ormai da qualche anno: Monterossi, il personaggio di Robecchi, ha già vissuto le sue sette vite editoriali e ora che si appresta all'ottava vale forse la pena chiedere al suo autore che rapporto abbia con lui.

Appena sente parlare di serialità, Robecchi però storce la bocca: la serialità, dice, prevede una composizione anche orizzontale tra un romanzo e l’altro, mentre per lui è sempre giusto scrivere un romanzo fatto e finito. "Detto questo - spiega  - ho con lui un rapporto conflittuale: alcune cose che dice le penso anch'io ma non tutte, lui è un po’ più accomodante. Ciò che mi piace però è il suo modo un po’ naïf e un po' Candide di guardarsi intorno, nonostante lui dovrebbe essere per contratto un maestro di cinismo televisivo".

Una breve pausa e poi chiude con l'ultimo sorriso: "Il trucco per non litigare col proprio personaggio, comunque, è non essere come lui. Siamo diversi e questo ci aiuta molto nel nostro rapporto".

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