Quando abbiamo iniziato ad allontanarci dai nostri figli

In realtà accade tutti i giorni. Una goccia alla volta, uno stillicidio. Una giornata passata in un liceo torinese, la scorsa settimana. La mattina gli studenti, nel tardo pomeriggio genitori e insegnanti. Mi sveglio alle 5,50, il tempo di portare fuori Nina, prelevata da un rifugio, dove viveva in una gabbia, dopo un abbandono di cui non conosco le circostanze. Alle 7 salgo sul treno a Cassano d’Adda, dove abito, quasi tre ore dopo arrivo a Torino Porta Susa, un gentilissimo professore con una vecchia 600 viene a prendermi, ci beviamo un caffè prima di accendere il motore. La trattativa con la scuola era stata rapidissima, anzi non c’era stata, si prende ciò che c’è, spesso la scuola pubblica non è in grado di comprare la carta igienica e neppure quella per le fotocopie, ma per conoscere la scuola pubblica bisogna averne voglia, bisogna entrarci senza fare i maestrini, evitando di scrivere volumi che sembrano provenire da oltre i confini del Sistema solare. In quegli ambienti, spesso datati e poco ospitali, vivono, con stipendi irrisori, gli artigiani che modellano il Paese. Molti abilissimi e appassionati, tanti solo per lo stipendio, qualcuno, non pochi, è fuori posto. Ma ci vive anche il nostro futuro, perché, superati i cancelli delle nostre case, è la scuola a prendere in carico i nostri figli. Ogni mattina sette milioni di bambini e ragazzi si mettono in marcia per raggiungere i loro plessi. Non considero i due milioni di studenti universitari, che portano il numero di studenti a nove milioni. Intorno a loro almeno quindici milioni di genitori e forse venti o trenta milioni di nonni. Il Paese, presente e a venire, passa da quelle aule grigie, dalle quali in troppi non vedono l’ora di uscire, persino chi ne governa il funzionamento, costretto a fare i conti con adempimenti su adempimenti. Le carte “devono” essere a posto. Alle 11 inizio l’incontro coi ragazzi, l’auditorium ne contiene 120, il resto è collegato dalle classi. L’impianto audio è pessimo, arriva il tecnico, la situazione non migliora per nulla perché il problema non è l’addetto ma lo stato dell’impianto. L’incontro era stato preparato con oltre un mese di anticipo, ma nessuno si è accorto che dopo le prime file non si sente nulla, senza contare che il microfono rimbomba. I ragazzi sono contrariati -io pure- sanno che se si fosse trattato di un convegno tra adulti le attenzioni sarebbero state diverse. Comunque restiamo insieme due ore, facendo quello che si può fare. Finito il tempo, due terzi dei presenti chiedono se possiamo proseguire, abbiamo lasciato dei temi in sospeso. Era passato l’ultima ora, potevano andare a casa. Rinuncio al microfono e procediamo. Ci stringiamo per sentirci meglio e continuiamo a confrontarci su tanti argomenti. La loro curiosità è inesauribile. Prima di salutarci, una delegazione dei ragazzi, mi chiede la disponibilità a tornare presto, acconsento volentieri a condizione che siano loro stessi a curare l’organizzazione interfacciandosi con la scuola. Quando salgo sul treno verso casa è buio, arriverò intorno a mezzanotte. Mi domando cosa avesse reso così gradevole quella giornata. Non riesco a trovare nulla che abbia a che fare con discorsi o concetti sofisticati. Mi torna in mente il dodicenne che qualche anno prima mi aveva raccontato “la domenica più bella” della sua vita. Era stato col padre a lavare la moto. “Non ci sono stati grandi discorsi, abbiamo fatto delle cose insieme e io mi sono sentito importante”. Sei giorni dopo sono a Roma, stavolta gli interlocutori sono un centinaio di bambini, diversi insegnati, altri adulti. La giornata è incentrata sulla tavola rotonda alla quale parteciperò, insieme a un docente universitario e a un neuropsichiatra infantile. Tenere interessati tanti bambini è un’impresa, ma noi adulti complichiamo le cose. Alle 9 sono previsti i saluti delle autorità, ma arrivano alle 10, non contente si perdono un’altra oretta toccando temi che ai bambini interessano poco, segue un intervento dell’organizzatrice, pertinente e appassionato, ma abbiamo già un’ora e mezza di ritardo e bisogna stringere, tuttavia stavolta è comprensibile, si tratta di una studiosa che ama davvero ciò che fa e si impegna allo spasimo per rendere bella e utile le giornate dei bambini di quel Municipio. Passo un bigliettino alla moderatrice, chiedo di fare rifiatare i bambini, che infatti esplodono in tutta la loro vitalità, avventandosi sulla merenda. Nel frattempo, chiedo al docente se è d’accordo per accorciare i tempi dei nostri interventi, è una persona molto sensibile e garbata, non ci sono problemi. Esordisco dicendo ai bambini che il regalo più bello che potrei fare loro sarebbe tacere “ma ieri sono arrivato dopo 4 ore di treno, le stesse che mi attendono oggi, datemi retta solo 15 minuti”. Sorridono grati, simpatizziamo. Purtroppo, dopo di noi sono previsti undici brevi testimonianze di adulti, più un intervento fiume di un’amministratrice pubblica. A Torino e a Roma i protagonisti dovevano essere i ragazzi, ma non è andata così. Non lo facciamo apposta, ma non riusciamo ad ascoltarli, a coglierne i veri desideri, le paure, la stanchezza. A comportarci come se venissero prima loro. Vogliamo scrivere noi la sceneggiatura, sempre. Così, piano piano, scivolano via dalle nostre dita, li vediamo allontanarsi verso l’orizzonte, diventare sempre più piccoli, fino a sparire. Poi, però, facciamo convegni sul digitale, come se fosse lui l’assassino. Nel 2020 la rivista “Minori Giustizia” pubblicò una monografia sull’ascolto dei bambini e dei ragazzi. Avevo intitolato mio contributo “Ascolto e minori. Una sincera, necessaria, svolta bidirezionale”, quasi un grido di dolore, che iniziava con queste semplici parole: “L’educazione, tra mille altre cose, può essere considerata un atipico atto di colonizzazione”. Certo, fino a quando sono piccoli possiamo maramaldeggiare, ma appena smetteranno di esserlo inizieranno le sorprese. Sarebbe meglio pensarci prima. Già, perché poi diventa tardi, qualche volta tardissimo.

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Quando abbiamo iniziato ad allontanarci dai nostri figli

Domenico Barrilà