Dalla "Merda d’artista" a Banksy: provocazioni che hanno fatto l'arte contemporanea

Alcune opere d’arte non sono pensate per essere ammirate in contemplazione ma per metterci scomodi, suscitare dubbi e coglierci in contraddizione. E molto più dell’arte del passato, l’arte contemporanea è alla ricerca di un pubblico con il quale comunicare i temi difficili e le forme grottesche del mondo. Per farlo ha bisogno che il suo linguaggio venga compreso, ma spesso mancano gli strumenti. Di qui il malinteso della Merda d’autore di Piero Manzoni, che gli è valsa il soprannome stigmatizzante di “caccautore”, o quello sui Tre bambini impiccati di Maurizio Cattelan, un’installazione realizzata a Milano che ha scosso a tal punto uno spettatore da convincerlo a prendere una scala e tirare giù i fantocci da un albero. Il primo artista contestava la deriva del mondo dell’arte, sempre più attaccato al feticcio del nome. L’altro voleva lanciare un messaggio contro la violenza nei confronti dei più piccoli e dell’infanzia. Gli artisti e le artiste del libro Irriverenti. Arte contemporanea tra provocazione e denuncia, edito da Laterza e scritto dallo storico dell’arte, docente e divulgatore Giuseppe Nifosì, non vogliono piacere né essere accomodanti nei confronti del buon costume o dello status quo. Parlano di sesso, Aids, violenza di genere, morte, consumismo, guerra, distruzione ambientale. Possono risultare oscenamente divertenti o profondamente disturbanti, a volte per un intento ribelle e canzonatorio, spiega Nifosì a Sky TG24, altre volte per nobili cause politiche. Aids, razzismo, sessismo, distruzione ambientale: molti artisti contemporanei, conosciuti per opere apparentemente leggere e pop, si sono dedicati anche a progetti molto impegnati. Cosa stava a cuore, ad esempio, a Keith Haring e Christo e Jeanne-Claude? Ogni artista ha una propria urgenza interiore: Keith Haring, ricordato soprattutto per i suoi “omini danzanti” dal disegno essenziale, affrontò i temi della tossicodipendenza e dell’Aids, impegnandosi con la sua arte a sensibilizzare l’opinione pubblica e denunciare i mancati interventi governativi. Molti suoi amici erano morti a causa della malattia. Lui stesso, che era omosessuale dichiarato, temeva di andare incontro alla medesima sorte. E così fu, infatti. Christo, artista più concettuale, percorse una strada differente. Lui e la moglie Jeanne-Claude, attraverso la land art, indagarono il rapporto con la natura e con il territorio. Il loro obiettivo era trasformare il paesaggio stesso in una tela, con installazioni poetiche e grandiose, che richiedevano uno impegno titanico. Moltissimi volontari parteciparono alle loro imprese: e collaborare per costruire qualcosa di bello, per quanto effimero, era di per sé un messaggio politico molto forte. Come costruire una Torre di Babele che univa invece che disperdere. L’umanità solidale può creare bellezza. Pensiamo solo a The umbrellas: migliaia di ombrelloni gialli piantati in California, negli Stati Uniti, e altrettanti blu in Giappone, due Paesi che si erano fatti la guerra, e attraverso l’arte celebravano la pace. Essere disturbanti è necessario per alcune artiste come Regina José Galindo, che gioca con l’empatia rappresentando la violenza in modo molto vivido, perché certe ingiustizie, dice, non possono essere denunciate in modo composto. Lei è una di quelle che hanno sposato un ruolo esplicitamente politico nell’arte? Sì, per quanto lei non si sia mai dichiarata militante. Galindo sceglie di essere disturbante perché non vuole che si chiudano gli occhi sui drammi del presente. Ha denunciato, con le sue performance, il genocidio in Guatemala dei primi anni Ottanta del Novecento, che ha visto vittime soprattutto tra le donne, oggetto di abusi spaventosi. Le azioni dell’artista sono esplicite, a volte violente, ma d’altro canto Galindo sa che l’orrore va denunciato a voce alta. Per questo ha scelto di identificarsi con le vittime e di subire a sua volta, certo in piccolo, le medesime sevizie. In Perra , si è incisa sulla coscia il termine “cagna”, con il quale in Guatemala venivano sfregiate dai soldati le donne violentate. In Mientras, ellos siguen libres si è legata, nuda e incinta, a un letto con veri cordoni ombelicali, per ricordare che i soldati godevano nell’abusare delle donne in stato di gravidanza fino a farle abortire. In Piedra , ha reso manifesta l’umiliazione subita da troppe donne nel mondo, rimanendo immobile, rannicchiata nuda per terra, mentre un gruppo di uomini le urinava addosso. C’è un tasso di verità altissimo in questo tipo di performance, una totale identificazione tra arte e vita. Nel libro menziona anche artisti come Andy Warhol, conosciuto soprattutto per la sua produzione più pop e leggera. Leggendolo si può riscoprire un Warhol più provocatorio? Ho voluto dare visibilità anche ad aspetti più intimi e personali, che il grande pubblico a volte non conosce, proponendo una lettura più sfaccettata di artisti vittime di una narrazione che li ha mitizzati. Warhol è stato il primo artista divo e glamour dei nostri giorni, ma ho voluto raccontare il suo carattere timido e profondamente tormentato, ed evidenziato la componente più sottilmente sociale e politica della sua arte. Anche nelle sue opere più disimpegnate si può cogliere un’analisi della contemporaneità implicitamente critica. Raccontando una società che si è massificata intorno al consumismo Warhol ne ha denunciato tutte le insidie. E non mancano, nella sua produzione, opere più impegnate. Negli anni Settanta, ha dato un volto alla comunità Lgbtqia+, in quel periodo molto marginalizzata, dedicando una serie di opere alle drag queen di New York . Sono temi ancora attuali. Pensiamo ad alcune opere di Banksy, quelle relative ai territori contesi della Palestina sembrano realizzate nel 2025. I suoi famosi stencil sul muro che divide Israele dalla Cisgiordania hanno più di vent’anni, ma sono di spaventosa attualità: i problemi di allora non solo sono rimasti irrisolti ma sono deflagrati. La scelta stessa di realizzare quelle immagini proprio su quel muro, con tutti i rischi che comportava, è stata di per sé un atto politico. Un muro può diventare una grande arma, secondo l’artista. La bambina che perquisisce il soldato o il guerrigliero che “scatena la pace” lanciando un mazzo di fiori invece che la molotov sono immagini iconiche e potentissime, che parlano ancora oggi alle nostre coscienze. Come conciliano, questi artisti, la critica al capitalismo e la necessità di vivere d’arte? Dipende dall’indole personale degli artisti. Molti, in qualche modo, hanno assecondato il mercato per ottenere successo, con una certa spregiudicatezza. Altri, come per esempio Banksy, sono sempre stati convintamente antisistema. Lui, per esempio, vende le sue opere attraverso un sito che le certifica, e contesta il fatto che poi vengano rivendute a valore decuplicato e anche più per fare profitto. Come racconta nel libro, gli artisti e le artiste irriverenti sono quelli che sfidano la norma. Per questo l’arte contemporanea è spesso incompresa? È un paradosso: l’arte contemporanea ha modificato le sue tecniche, utilizza strumenti nuovi, spesso adotta sistemi di comunicazione vicini a quelli dei social o della televisione, per esprimersi in modo più diretto e immediato. Eppure, è soggetta a pregiudizi e vittima di stereotipi: non viene capita, anche perché, a mio parere, non viene sempre adeguatamente spiegata. La frase un po’ sprezzante che tanto spesso si sente pronunciare, “questo potrei farlo anch’io”, è diventato un facile slogan. Il punto è che senza le giuste chiavi di lettura, l’arte contemporanea difficilmente si può comprendere. E dire che la sua esigenza primaria è proprio quella di rivolgersi alla gente. L’arte contemporanea è per tutti perché davvero parla a noi e di noi. Basta volerla ascoltare. E quando l’arte diventa dialogo, ci insegna anche a guardare il mondo con occhi diversi, rendendoci più consapevoli.

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Agnese Ranaldi