Hamid Ismailov: “Ne Il figlio del sottosuolo svelo la Mosca che non si vede”

Lo scrittore uzbeko, esule e bandito in patria, ci porta dentro “Il figlio del sottosuolo”; edito da Utopia. Ambientato a Mosca negli anni Ottanta-Novanta, il romanzo segue le vicende del piccolo Mbobo, nato da una siberiana e da un atleta africano, un viaggio scandito dalle stazioni della metropolitana più suggestiva del mondo, un labirinto che alla fine del libro il lettore avrà l’impressione di conoscere meglio di un moscovita. Il groviglio delle linee, tra tunnel, sottopassaggi, corridoi, è l’utero di una città che è al tempo stesso madre e matrigna. Dalle Olimpiadi del 1980, passando per la nube di Chernobyl, fino al putsch del 1991, i grandi fatti storici irrompono nella quotidianità straordinaria e tragica di un bambino “russo nero”, una reincarnazione di Puškin ai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Come definirebbe il suo rapporto con Mosca? Sono nato nell'impero sovietico e, come qualunque persona ambiziosa, sapevo che sarei dovuto passare per Mosca per realizzare le mie ambizioni: era il centro della vita letteraria e culturale di tutta l'Unione Sovietica. In Russia, se volevi combinare qualcosa, dovevi passare per forza per quella città. Così mi sono trasferito con la mia famiglia lì nel 1984 e ci sono rimasto oltre la caduta dell'Unione Sovietica, parliamo del 1992. Nel 2005 ci sono tornato di nuovo da Londra, dove nel frattempo mi ero stabilito e vivo ancora oggi. Dovevo occuparmi del vecchio appartamento da anni disabitato. Tutto era rimasto uguale. Me ne accorsi la prima notte che passai lì dopo tanti anni: la neve che cadeva all’esterno, i mobili di un tempo coperti di polvere, lo stesso cielo notturno azzurro scuro. Il tempo si era fermato. Era rimasta intatta anche la tristezza russa, o in qualsiasi altro modo vogliamo chiamarla. Ha iniziato in quel momento a pensare di scrivere un romanzo? Quella fu una sensazione molto forte, di cui ho preso consapevolezza ritornando a casa, a Londra. Stavo sperimentando una forma di nostalgia o qualcosa del genere. D’improvviso ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa su quella che era stata la nostra vita a Mosca. Il punto di vista che ho scelto è quello di mia figlia, che in quella città era cresciuta, perché arrivammo a Mosca quando aveva quattro anni e ce ne andammo quando ne aveva dodici, l’età che ha il protagonista del libro, Mbobo. Scrissi di getto 60 pagine, ma stavo in qualche modo ripetendo cose che avevo già scritto nel passato, nel tono e nella musicalità. Così buttai tutto nel cestino. Ho, poi, avuto una sorta di illuminazione. Perché non costruire un novello Puškin nero nella Mosca degli anni Ottanta, un bambino alle prese con la dissoluzione dell’Unione Sovietica? È quello che ho fatto con questo libro. Mbobo è quindi un mix di sua figlia e di Puškin? Sì, è importante sottolineare che tutto d'un tratto mi sono reso conto che mia figlia non era stata così felice come avrebbe dovuto essere secondo i dettami dell'ideologia sovietica. Perché mia figlia, essendo una uzbeka, era oggetto di ogni tipo di discriminazione razziale ed etnica, fu esposta a innumerevoli umiliazioni, in quell’età complessa che va dall’infanzia all’adolescenza. Misi a fuoco solo in un secondo momento. Questo è un romanzo sotterraneo come suggerisce il titolo scelto per l’edizione italiana. Perché? La nostra vita a Mosca era stata una vita sotterranea, perché si svolgeva tutto non in superficie ma principalmente sottoterra. Non avevamo una macchina e la metropolitana ci portava ovunque. Per questo non conoscevamo la città in superficie, ma ci orientavamo grazie alle stazioni della metro, il nostro mezzo di trasporto principale. Sottoterra si incontravano gli amici, sottoterra parlavo con mia moglie di cose importanti, e così via. Sullo sfondo del suo libro c’è la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Pensa che leggerlo ci può aiutare a capire la Russia contemporanea? Sì, quello che è stato seminato in quel periodo ha avuto delle enormi conseguenze sul presente. Il mio obiettivo era dimostrare i rapporti causa-effetto. Mentre lo scrivevo nel 2006, la situazione in Russia era abbastanza chiara per quanto riguarda, ad esempio, il trattamento riservato ai migranti. A quel tempo, il postcolonialismo era in pieno svolgimento. Tutte le popolazioni delle ex colonie, molti centroasiatici, all'improvviso si riversarono nelle grandi metropoli russe. Ne arrivarono a milioni. Fu come un divorzio: i genitori si separano - in questo caso la Madre Russia dalle colonie - ma entrano in gioco i figli. L'esperienza di mia figlia durante il periodo sovietico prefigurò quello che sarebbe successo dopo: l'ideologia della Russia moderna si basa sull’odio nei confronti del diverso, dello straniero. Con il crollo dell'Unione Sovietica, tutto è diventato più evidente. Come si è arrivati all’invasione russa dell’Ucraina? L’atteggiamento colonialista è alla base di tutto ed è diventato via via più acuto. Già ai tempi in cui scrivevo questo romanzo, non dimentichiamoci che c’era un’altra guerra, quella in Cecenia. Leggere ”Il figlio del sottosuolo” in questo momento storico è un’esperienza forte perché si parla di una città estremamente lontana: non ci sono più voli diretti, ci sono tanti impedimenti come l’utilizzo delle carte bancarie internazionali che scoraggiano i viaggi, e si potrebbe continuare. Pensa che dovremo aspettare la fine dell'era Putin per riconnetterci con quella parte del mondo? Sono pessimista su questo perché penso che il putinismo sia andato troppo in profondità nel cervello delle persone. Sfortunatamente, la maggior parte dei russi, in un modo o nell'altro, sostiene quel regime. E questo è il problema più grande. Non possiamo pensare che il semplice cambiamento dell'élite possa trasformare la Russia da un giorno all'altro in una democrazia. Come scrittore, ho cercato di mostrare che il super nazionalismo russo c’è sempre stato, e le premesse sono da ricercare proprio nell’epoca sovietica. Ultimamente scrivendo il mio nuovo libro mi sono trovato a riflettere sui romanzi che ci facevano leggere durante l’infanzia. Me ne ricordo uno in particolare, ambientato a Leningrado durante la Seconda guerra mondiale. Tutti i personaggi buoni sono russi puri. Tutti i nemici sono ebrei o ucraini o baltici o i tartari e così via. Fin dall'infanzia ci riempivano con questa visione del mondo in cui i russi sono le uniche persone perbene. L'intera nazione ha contratto questa malattia nazionalista, ma era nascosta in nome dell’apparenza socialista. La differenza con il passato è che ora i russi non si nascondono più. Anche in un altro dei suoi libri, il suo primo pubblicato in Italia - sempre - da Utopia “La fiaba nucleare dell'uomo bambino”, l’identità è un tema forte, esattamente come ne “Il figlio del sottosuolo”. Qual è il suo rapporto con l’identità, considerando che è cresciuto in un Impero, come ricordava, e sappiamo che è bandito nel Paese in cui è nato, l’Uzbekistan? Durante il periodo sovietico, siamo stati cresciuti come prodotti sovietici. Brežnev disse chiaramente che volevano creare una nuova generazione di uomini, il popolo sovietico. Questo era il loro obiettivo finale. E noi, come prodotti sovietici, credevamo in questo concetto. Ovunque andassi a quel tempo, per esempio nei Paesi Baltici o in Ucraina o in Russia, mi sentivo parte di qualcosa di più grande. Eravamo immersi in un ricco mix di culture diverse, di diverse etnie e così via. Almeno a parole o sulla carta, l'uguaglianza era raggiunta. In un certo senso, avevi diritto a questa uguaglianza. Ma quando ci siamo trasferiti a Mosca, all'improvviso ci siamo resi conto che era inverosimile, perché eravamo trattati come cittadini di serie B. Soprattutto durante gli anni della perestrojka e della glasnost, durante il periodo di Gorbačëv, quando c’è stata una liberalizzazione, all'improvviso abbiamo iniziato a comprendere la nostra vera identità, di baltici, caucasici, di centroasiatici. In un certo senso, siamo diventati nazionalisti anche noi non-russi in quel periodo. È stato un momento di consapevolezza, di presa di coscienza dell’oppressione e di conseguenza di appropriazione della nostra identità. Ha speranza di poter tornare un giorno in Uzbekistan senza essere perseguitato? Penso che, per la direzione in cui sta andando l'Uzbekistan, non sarà mai possibile. Anche se un giorno mi invitassero davvero, non sarei una persona libera e felice perché è un Paese autocratico per sua natura. Non puoi essere felice in un Paese in cui tutta la ricchezza appartiene al 5% della popolazione e l’altro 95% è in difficoltà. Vanno all'estero milioni di uzbeki per lavorare in Russia, in Kazakistan, in Corea. L'Uzbekistan è il secondo Paese con più richieste di green card americane, dopo il Ghana. Scappano. La situazione è davvero complicata. Lei è uno scrittore, ma anche un giornalista e, cosa molto importante, un traduttore. Si considera un mediatore, un ponte tra Oriente e Occidente? Di default lo sono diventato, perché i miei lettori ora non sono più russi, non sono più uzbeki ma per lo più occidentali. È stato automatico ma sono attratto dall'idea dei ponti piuttosto che dei muri. Dipende dal posto in cui sono nata, l'Asia centrale, uno dei punti focali della Via della Seta, che abbraccia molte culture, molte civiltà. culture e civiltà che fanno di parte di me. Sono un fervente sostenitore dei ponti, non dei muri. È nel mio DNA.

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Ludovica Passeri