Letteratura post-jugoslava, la sfida di tradurre la complessità

Estera Miočić, traduttrice originaria di Spalato, classe 1975, in questi giorni è a Sarajevo per un incontro che durerà tre settimane. Un programma promosso dall’Ue che coinvolge cinque traduttrici che rappresentano la voce degli autori dell’area ex jugoslava in Germania, Austria e Italia. “Niente in questa città è innocente. La storia risuona in ogni angolo”, confessa Miočić che nel corso della sua carriera ha tradotto in italiano opere dal croato, dal serbo e anche dal bosniaco, come “Preghiera nell’assedio” di Damir Ovčina, un monumentale libro autobiografico che racconta il dramma della guerra degli anni Novanta dal punto di vista di un giovane liceale. “Ho passato tanti anni in questa città idealmente, l’ho fatto traducendo. Ho vagato per queste strade cercando le parole migliori per rendere il significato originale. Ieri sono salita sul Trebević, la grande montagna che incombe sulla città, e non potevo non pensare alle mine che possono ancora essere sepolte per terra. Le mine di cui parlava il romanzo di Ovčina. Non è solo letteratura, non è finzione: ci sono dei percorsi battuti, ma non ti devi addentrare nel boschi perché nessuno garantisce che siano sicuri e poi su questo monte seppellivano i morti durante l’assedio. Impossibile che il pensiero non vada costantemente a tutto questo”. Perché l’italiano, perché l’Italia? Sono nata e cresciuta a Spalato. Quando ho iniziato le elementari, quindi stiamo parlando dell'82, si studiava russo, inglese, tedesco, un po’ di francese, non l’italiano. Io fui tra i pochi che lo studiarono. In Jugoslavia si dava molta importanza alle lingue straniere, ma l’italiano era una lingua in un certo senso controversa, “proibita”, per via delle vicende storiche della Seconda guerra mondiale. L’eredità fu un rapporto complesso con questa lingua e con questa cultura, ma l'italiano è storicamente presente, è proprio nel nostro orecchio, e quindi si insinua anche nel dialetto locale. Pensiamo al dialetto di Spalato, la mia città, che aveva tantissimi prestiti dall'italiano, anche se adesso alcuni sono scomparsi. Su di me questa lingua ha sempre esercitato un grande fascino. Un fascino dettato proprio da questo rapporto controverso? Ho utilizzato la parola “proibita” ma forse non è pienamente corretto. Si dovrebbe dire piuttosto relegata a un passato discusso che però non abbiamo mai smesso di amare. Non dimentichiamoci che la Repubblica di Venezia è stata presente per tantissimi secoli. Più passa il tempo, più sembra distante, ma l’influenza è stata importantissima. Basti pensare a quanto è penetrata questa cultura anche nella lingua: tutta la terminologia marittima trae origine dal veneziano. Abbiamo convissuto con questa presenza, l’italia, e poi abbiamo vissuto in un progetto politico distante, sempre sentendo un profondo senso di vicinanza, Trieste e Venezia fanno parte di noi. Lo definirei un senso di prossimità culturale che è ancora vivo. E poi il trasferimento in Italia. Sapeva che sarebbe rimasta? Durante il liceo avevo svolto diversi soggiorni come au pair per imparare la lingua. Sono arrivata in Italia in maniera più stabile nel ‘94 per motivi di studio, quindi la guerra non era ancora finita. Ho studiato al Dams dell'Università di Bologna, però questa attività della traduzione ho iniziato a svolgerla più tardi, non immediatamente dopo la laurea. Feci diversi lavori ma sentivo di allontanarmi progressivamente dalla mia lingua, la mia lingua madre. Volevo in qualche modo recuperare questo rapporto e la traduzione mi permetteva di vivere entrambe le lingue, di viverle pienamente. Ho lasciato la Croazia per studiare all’estero e non pensavo che mi sarei trasferita per sempre, quindi la traduzione è arrivata come una esigenza proprio esistenziale. L’italiano è diventato la mia principale lingua, tant'è vero che con la mia bambina la nostra lingua principale è l'italiano. A volte mi sento anche in colpa perché non riservo abbastanza spazio al croato: nell'economia della giornata è una cosa che è molto difficile. Qual è il primo libro che ha tradotto? Il primo libro che ho tradotto è di uno scrittore spalatino, che si chiama Jurica Pavičić, autore molto locale, giornalista, anche critico cinematografico oltre che romanziere, specializzato in gialli. Ha questa grande capacità di ritrarre questo territorio, la Dalmazia, con tutti gli sconvolgimenti culturali e politici, cioè dalla dissoluzione della Jugoslavia ad oggi, con una grande sensibilità sociale, quindi i suoi sono dei gialli sociali. Il più noto è "Crvena voda", in italiano, "Acqua rossa", che ho tradotto per Keller. Pavičić ad esempio in Francia ha avuto molto successo. La situazione di questi autori nei diversi Paesi è molto varia, perché non tutti hanno la stessa attenzione e l'editoria stessa non funziona allo stesso modo e spesso ne fanno le spese le letterature minori. Quando ha iniziato a tradurre, qual era la situazione? Quanto era tradotta la letteratura dell’area ex jugoslava, chiamiamola così? La situazione era molto statica, perché negli anni ‘90 quasi tutta questa letteratura veniva tradotta da una casa editrice che si chiamava Zandonai, di Trento, che è stata attiva fino al 2015, quando è fallita. Loro pubblicavano soprattutto autori di queste zone qua, come Miljenko Jergović, Dragan Velikić, Slavenka Drakulić. Dopo questo fallimento, si è creato un vuoto. Certamente grandi case editrici come Adelphi o Feltrinelli, poi successivamente Bompiani, hanno tradotto alcuni titoli, ma facendo un ragionamento più generale nella scelta degli autori da tradurre si guarda molto alle vendite. Il rischio è che questa letteratura rimanga monopolio solo di piccole case editrici che lavorano molto con i finanziamenti pubblici e che sono poco orientate al mercato e con una scarsa distribuzione. Come colmare queste lacune editoriali? Per valorizzare questa letteratura nel 2014 ho avuto l’idea di creare una piattaforma che si chiama Libar e che è una specie di vetrina per dare visibilità a certi titoli e certi autori che non sono ancora arrivati in Italia. Presento l'opera con una traduzione del titolo originale e una scheda riassuntiva. C’è da dire che gli editori non leggono questi libri in lingua originale, a volte si crea un contatto attraverso le traduzioni in altre lingue. Il mio obiettivo è poter stimolare e incuriosire questi editori, perché, ovviamente, io leggo le opere in lingua, e quindi mi propongo di offrire uno stimolo iniziale per dare una maggiore visibilità alla produzione al di là dell’Adriatico. Diversi libri che ho segnalato su questa piattaforma poi sono stati pubblicati anche da case editrici italiane. Da parte mia c’è stato un forte investimento, non solo in termini economici, ma di tempo. Non ho usufruito di finanziamenti da pubblici. In questo periodo sto traducendo molto, quindi mi sono dedicata di meno all’aggiornamento di Libar. Perché questo nome? Prima di diffondersi nel croato scritto, libar, come molte altre parole dialettali dell'Istria e della Dalmazia, era una parola italiana, libro, adattata all’uso locale per via orale. Gli attori principali di questa mediazione linguistica erano parlanti slavi che nella quotidianità apprendevano dai vicini italiani i suoni e i significati delle loro parole facendoli propri. Libar per questi e altri motivi è più di un sostantivo, è un esempio di contatti e di scambi tra lingue e culture differenti. Quali sono i libri che è riuscita a portare in Italia grazie a Libar? "Il vicino" e "Pelle" di Marina Vujčić sono stati pubblicati da Bottega Errante, poi ci sono diversi libri di Jurica Pavičić, come questo Acqua rossa che ho appena citato, dei libri di Slavenka Drakulić: “L'accusata” per Keller, e altri due che ho pubblicato per Bottega Errante: "Dora e il minotauro" e "Mileva Einstein". Che impatto ha avuto la dissoluzione sulla letteratura? Dobbiamo partire da un presupposto. Il serbo, il croato e il bosniaco sono lingue con delle specificità, ma molto vicine. Tre varianti. Per spiegarlo posso dire che per me non c’è una differenza sostanziale nel leggere, capire, parlare in queste tre versioni. Per me è assolutamente normale tradurre da tutte queste lingue, perché le differenze non compromettono la comprensione reciproca. Ho sempre viaggiato in questo spazio, ho sempre letto gli autori che si esprimevano sia in cirillico, sia in alfabeto latino.Per lo sloveno e il macedone il discorso è diverso, ma si studiava e parla correntemente in questi due altri Paesi quello che allora si chiamava serbo-croato. Serbo prima di croato perché i serbi erano predominanti. C’era comunque un’esposizione e una contaminazione continua tra le varie comunità. E poi cos’è successo? Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, secondo me, c'è stato un impoverimento culturale di questi popoli. In Slovenia si è smesso di studiare il serbo-croato ad esempio, una cosa che trovo assurda data l’intensità dei rapporti. Allo stesso tempo i nazionalismi hanno imposto una chiusura della lingua serba, croata e bosniaca, che sono state valorizzate dagli anni Novanta in poi come lingue differenti. I rapporti si sono, in questo senso, troppo ideologizzati ed è mancato il pragmatismo. Non siamo stati in grado di riorganizzarci in termini diversi per tenere vivi i legami culturali e per non perdere questo patrimonio, perché la Jugoslavia in sé, secondo me, era un progetto politico-culturale anche originale. Però, chiaramente, come tutti i progetti aveva bisogno di essere aggiornato. Perché se nel ‘45 poteva andare bene così, magari nel ‘75, nell'85 no, perché le persone, gli individui evolvono e così anche gli Stati. E poi il resto dei danni sono stati fatti dal rigurgito nazionalista che è stato come un contagio. Non siamo riusciti ad avere una versione più adatta ai tempi che correvano, alle nostre esigenze e questo: è un grande dispiacere, perché noi, tutti questi popoli, siamo orientati naturalmente gli uni verso gli altri. Ora sono a Sarajevo, in Bosnia, e qui parliamo tutti una versione della stessa lingua, ci comprendiamo tutti, ci capiamo e non abbiamo alcun problema, condividiamo gli stessi prodotti culturali, ci entusiasmiamo intorno alle stesse opere. In Italia che percezione abbiamo di tutto questo? C'è ancora confusione: è vero che si può sostenere il legame tra serbo e croato in via informale, ma spesso in Italia si parla in sedi ufficiali di serbo-croato e questo è sbagliato. Poi c’è da dire che la conoscenza di questo mondo è mediata dalle cattedre universitarie. Se la professoressa di ruolo è più portata per il serbo porterà in quell’ateneo una maggiore sensibilità sulla letteratura serba a discapito delle altre, e così al contrario per il croato o il bosniaco. Questo a volte è un limite, bisognerebbe coprire tutto lo spettro letterario. Dovrebbe esserci maggiore collaborazione interuniversitaria. Rispetto alle sue colleghe tedesche a Sarajevo? Provo molta invidia perché loro possono contare su una rete che si chiama Traduki supportata da varie istituzioni tra cui Goethe-Institut, con tutto un sistema di finanziamenti, borse di studio e sostegni alle traduzioni in tedesco di romanzi serbi, croati, e bosniaci, e anche macedoni e bulgari. In Italia manca un ente come questo. Noi siamo più sole. La parola più bella della sua lingua madre? Lancerò una provocazione. Una parola su cui ho riflettuto recentemente è porodica, famiglia. Dalla dissoluzione della Jugoslavia e quindi dalla separazione delle lingue, si è molto insistito sulla differenza linguistica, quindi dobbiamo ora dimostrare che le nostre lingue sono diverse a tutti i costi anche a livello informale, anche attraverso l’invenzione dei nuovi vocaboli o il recupero di vocaboli desueti. Però per me che sono croata ci sono alcune parole serbe che sono più belle, come porodica. Mi dispiace perché ha una bellissima etimologia che viene da porod parto, quindi contiene in sé questa idea forte di filiazione. L’equivalente croato non è così bello: obitelj ha una etimologia meno immediata e pittoresca. Prima in Croazia si utilizzava senza problemi “porodica”, non ci si faceva caso, ora non si può più. Un libro che ancora non è stato tradotto e che vorrebbe portare in italia? Jergović è stato molto tradotto, ed è famoso per "Le Marlboro di Sarajevo", però la sua saga familiare di mille pagine che si chiama “Rod” non è mai arrivata qui e secondo me meriterebbe. Parliamo di un autore nato a Sarajevo, ma trasferito trent’anni fa a Zagabria che rappresenta bene questa mescolanza di collegamenti tra i vari Paesi. Perché dovremmo avvicinarci a questo mondo letterario? Sono autori molto intensi che vivono in realtà molto complesse, sempre in transizione, e quindi che forse possono anche intuire e captare più facilmente i mutamenti che avverranno e hanno una maggiore sensibilità per quello che succede nel mondo, hanno vissuto esperienze molto traumatiche come la guerra e poi c’è questa mescolanza di lingue e culture che rende vivaci queste opere. Come passerà questi giorni a Sarajevo? In questi giorni sto recuperando i bei pezzi di cinematografia che mi sono persa in questi anni. In Italia non arrivano tanti film bellissimi di questi Paesi perché non vengono distribuiti, se non eccezionalmente, quindi non è solo un problema dei libri. E poi siamo qui per conoscere autori bosniaci, per dare vita a nuove collaborazioni e chissà quali libri arriveranno in Italia grazie a questi giorni sarajevesi.

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Ludovica Passeri