Europa disarmata, anche l’Italia al bivio

L’alba di venerdì 13 giugno ha portato con sé un’eco di guerra che scuote, ancora una volta, l’ordine mondiale. Israele ha colpito obiettivi militari in Iran: infrastrutture strategiche, centri di comando, depositi collegati al programma nucleare. Per Teheran è un“atto di guerra” e a questo punto le “ritorsioni sono inevitabili”. Ed ecco che il Medio Oriente e il mondo entrano in una nuova fase di allerta permanente. Diplomazie in fibrillazione, mercati in bilico, lo spettro dell’escalation è tanto concreto quanto spaventoso. E l’Europa? Guarda. Osserva. Incapace di incidere, inchiodata a un ruolo da spettatrice. Travolta da crisi che si alimentano a vicenda: la guerra in Ucraina che si trascina con logorante intensità, l’instabilità endemica della regione mediorientale, e ora l’escalation israelo-iraniana che rischia di riscrivere per l’ennesima volta le regole del confronto globale. Il tutto, in un quadro reso ancora più incerto da un fatto ormai compiuto: Donald Trump è tornato alla Casa Bianca e questa volta, a differenza della sua prima presidenza, non si limita a evocare il disimpegno, ma lo pratica. In sei mesi ha tagliato fondi, sospeso missioni, vuole rinegoziare la presenza americana in Europa e nel mondo sulla base di criteri di “alleanza selettiva”. L’ultimo affondo, poche ore dopo i raid israeliani, ha quasi il tono di un ultimatum: “Israele fa bene a difendersi. L’Europa impari a farlo da sola.” Parole che suonano come una rottura sempre più vicina con la dottrina dell’ombrello occidentale, dando il là ad una nuova era: quella dell’autodifesa senza garanzie. Dentro questo vuoto strategico, resta sospesa una domanda che l’Unione Europea rimanda da troppo tempo: può – e vuole – diventare una potenza militare? Una domanda alla quale nessuno sembra voler davvero rispondere, ma che oggi diventa una necessità ineludibile. Una sorta di condizione per la sopravvivenza geopolitica. Il problema non è tecnico. È, prima di tutto, politico. La difesa comune europea resta uno slogan. Un cantiere aperto di cui nessuno vuol farsi carico degli oneri. Un’unione bloccata da veti e contro veti, nazionalismi a la carte, interessi individuali. Manca una visione condivisa. Manca una leadership capace di indicare la direzione. L’Unione non ha ancora deciso cosa vuole essere nel nuovo ordine globale. E senza questa decisione, ogni ambizione rischia di evaporare. L’Italia è uno dei tanti casi. Giorgia Meloni ha più volte ribadito che “la libertà si difende anche con la forza”, e che l’Europa “non può delegare ad altri la propria sicurezza”. Ma alle dichiarazioni simboliche non seguono atti concreti. La spesa militare resta di fatto all’1,5% del PIL, sotto il 2% richiesto già anni fa dalla NATO e ben lontana da quel 5% che l’amministrazione Trump reclama come soglia per definire un “alleato credibile”. Ora bisognerà arrivarvi, ma un obiettivo raggiunto sulla scia dell’emergenza rischia di produrre non poco dolore. I programmi europei di difesa restano marginali, la partecipazione italiana all’industria militare comune è discontinua, l’integrazione nei sistemi di difesa avanzata è ancora più retorica che realtà. Eppure la minaccia è reale. La disgregazione degli equilibri internazionali mette a nudo tutte le fragilità di un Paese che come molti altri de Vecchio Continente sembra aver rinunciato a una sua postura strategica. Ma il nodo, ancora una volta, anche qui, è prima di tutto politico. E trasversale. La maggioranza di governo è divisa. Matteo Salvini si oppone a qualsiasi ipotesi di “corsa agli armamenti”, insiste sulla priorità del “carrello della spesa” e alimenta un pacifismo tattico utile più alla propaganda che alla sicurezza nazionale. Forza Italia resta defilata, divisa tra l’istinto atlantista e il calcolo elettorale. Dentro Fratelli d’Italia convivono due anime: da un lato la vocazione occidentale, dall’altro un nazionalismo scettico verso ogni struttura sovranazionale. Nemmeno l’opposizione brilla per visione. Frammentata, contraddittoria, più incline alla critica che alla proposta, non riesce a farsi carico della sfida storica. Così il dibattito pubblico si spegne, inghiottito da una campagna elettorale permanente e da una rassegnazione diffusa. L’attacco a Teheran rappresenta anche una soglia simbolica. Dice che la deterrenza classica non basta più. Che la guerra preventiva è tornata a essere - nostro malgrado - uno strumento di politica estera. Che l’architettura costruita nel dopoguerra mostra crepe profonde. Qui si gioca la sfida europea ed italiana. Non basta più “stare con l’Occidente”. Serve esserci, contare, contribuire. Come ha scritto Draghi nel suo rapporto per l’Ue, “Serve una visione strategica, una capacità industriale, una volontà politica. Serve un esercito europeo, un comando unificato, una capacità autonoma di intervento”. Ma soprattutto serve il coraggio di dirlo apertamente a un’opinione pubblica stanca, spesso ostile, disillusa dopo anni di tagli, promesse mancate, ambiguità. Il paradosso è evidente: mai come oggi l’Italia è vulnerabile, e mai come oggi resta immobile. Né pacifista, né interventista. Semplicemente in stand by. E l’indecisione, in uno scenario globale sempre più instabile, è un lusso che non possiamo più permetterci. L’attacco a Teheran non sarà l’ultima scossa. Altre verranno. E anche il nostro Paese, prima o poi, sarà obbligato a decidere: esserci o non esserci nel processo di costruzione della difesa comune. Far parte della soluzione, o fare i conti con una miriade di problemi .

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