40 anni di Dragon Ball

Il 20 novembre di quarant’anni fa veniva pubblicato per la prima volta il manga di “Dragon Ball” . Da allora sono cambiate tante cose: è cambiata l’industria del fumetto, per esempio, ed è cambiato – in modo decisamente più netto – il mondo. È caduto il Muro di Berlino, i due blocchi della guerra fredda si sono dissolti ; gli Stati Uniti non sono più la superpotenza che erano, e la Cina ha un ruolo sempre più determinante nello scenario internazionale. “Dragon Ball”, però, è rimasto. Ha trovato nuovi spazi, nuove forme, e non se n’è mai andato via. Non del tutto. Continua a essere un punto di riferimento, e non solo per gli appassionati: molti dei manga che leggiamo oggi, anche quelli più famosi come “One Piece”, sono – volenti o nolenti – discendenti più o meno diretti del lavoro che ha fatto Akira Toriyama, della sua visione e, soprattutto, delle sue intuizioni. Ci potremmo limitare a parlare delle trasformazioni come meccanismo narrativo e del modo in cui hanno influenzato il battle shonen. Ma oltre che banale sarebbe estremamente riduttivo. La forza di “Dragon Ball” è sempre stata nel suo essere altro: inclassificabile, a parte, completamente nuovo e allo stesso tempo rispettoso di una certa tradizione. Non è stato il primo manga di Toriyama, e sicuramente se ha ottenuto questo successo, nel corso del tempo, è stato merito anche dell’anime . Toriyama è stato un designer incredibile di personaggi e di veicoli; fin dai tempi di “Dr. Slump”, è riuscito a trovare un equilibrio tra un disegno più dettagliato e uno più morbido, quasi abbozzato, ma mai dimenticabile. E questo, paradossalmente, perché è sempre stato pigro. Gli piaceva disegnare, immaginare mondi e storie, ma quando si trattava di fare ordine nella trama o di scrivere dialoghi si faceva indietro. L’idea stessa di fare biondi i capelli dei Super Saiyan era arrivata per evitare di perdere tempo e per non doverli colorare ogni volta . Con “Dragon Ball”, però, Toriyama ha saputo rivolgersi a una platea internazionale, come non era stato in grado di fare nemmeno Osamu Tezuka. “Dragon Ball” prende direzioni diverse, in continuazione. E anche questo fa parte della sua fortuna. All’inizio, seguiamo la storia di un bambino con la coda di una scimmia. E diamo per scontato che sia un essere umano. Dopotutto, intorno a lui, ci sono creature incredibili: esserini capaci di trasformarsi, di cambiare forma, signori del male con le orecchie a punta; animali antropomorfi e dinosauri. Ma non c’è solo l’aspetto più leggero e comico: c’è pure la tragedia. Quando, per esempio, Goku ha a che fare per la prima volta con il Fiocco Rosso o con Piccolo. E c’è pure un gioco sottile di battute maliziose e tensione sessuale. Ci sono mostri e assassini senza pietà, donne bellissime e fascinose. E la morte, intesa proprio come possibile fine, è ovunque. Con il procedere della saga, Goku cresce. Le sfere del Drago, che erano state lo spunto iniziale di tutto il racconto, passano quasi in secondo piano – ogni tanto ritornano, sì, ma solo per poco. Goku si circonda di amici e di alleati, e conosce nuovi nemici. Il suo obiettivo è essere il più forte. E in questo, indubbiamente, conserva una parte importante della sua innocenza e della sua superficialità. Diventa padre, ma è come se non lo fosse. Toriyama è stato tanto bravo da riempire l’universo narrativo di “Dragon Ball” con personaggi differenti, pronti a bilanciare – per così dire – Goku e il suo carattere. Se nella prima metà del manga è possibile riconoscere un certo grigiore tra i protagonisti e i comprimari, nella seconda c’è una nettezza maggiore. E così i cattivi più iconici, come Freezer, sono cattivi in senso assoluto. Hanno una loro agenda e un loro tornaconto personale, sì. Ma non hanno bisogno di giustificazioni o di motivazioni particolari per essere ciò che sono. A volte, sembra dirci Toriyama, la malvagità esiste e basta. Senza premesse, senza grandi background, senza dover per forza scomodare la psicanalisi. “Dragon Ball” si è offerto al lettore completamente, e a seconda del punto di vista può avere significati più o meno diversi. C’è il classico viaggio dell’eroe. E c’è il racconto della crescita di un bambino orfano. C’è il genere, con iniezioni importanti di steampunk e di fantastico. E c’è l’azione: ciò che ha reso assolutamente indimenticabili i combattimenti di Goku. Dopo quarant’anni, e lo dicevamo anche prima, “Dragon Ball” è rimasto. E lo stesso manga, con le tante edizioni che ha avuto e che ha tuttora, continua a evolversi. Per carità: i protagonisti, la storia, le ambientazioni e tutto quello che conosciamo restano gli stessi. Eppure ci sono una freschezza e un dinamismo di fondo, supportati principalmente dallo stile e dal tratto di Toriyama, che permettono a “Dragon Ball” di essere attualissimo. Altri manga, vuoi per la ricercatezza eccessiva dei disegni o per le sceneggiature pesanti e ripetitive, invecchiano molto velocemente. Non “Dragon Ball”. Forse perché è stato il primo in tante cose, oppure, molto più semplicemente, perché il suo creatore non ha mai provato a forzare la storia o le dinamiche tra i personaggi e ha sempre mantenuto, e questo è evidente, una sua purezza. “Dragon Ball” è quello che è, anche quarant’anni dopo, proprio perché resta essenziale. Ad azione corrisponde reazione, e le grandi battaglie, prima ancora che per tenere con il fiato sospeso i lettori, servono per intrattenere. Se Toriyama è riuscito nella sua impresa, è stato innanzitutto perché ha sempre cercato di divertirsi. E i momenti migliori di “Dragon Ball” sono quelli in cui questa voglia di divertimento coincideva con le intuizioni creative.