Nikolai Prestia: "Il dramma degli studenti nella società delle performance"

Nikolai Prestia è una delle nuove voci della letteratura italiana contemporanea. Nato nel 1990 a Nizhny Novgorod, in Russia, è stato adottato da una famiglia siciliana insieme alla sorella. Dei primi anni complessi e dolorosi della sua infanzia ha raccontato nel romanzo d'esordio "Dasvidania". Ora è in libreria con “La coscienza della piante”, edito da Marsilio, un’altra storia di grande investimento personale: un trentenne ricoverato per un attacco di panico in meno di tre ore ripercorre con uno psicologo quasi otto anni della sua vita, da matricola a laureato. Il percorso del protagonista, Marco, all’inizio lineare si inceppa a seguito di un lutto che non ha gli strumenti per affrontare: è a un passo dal traguardo, dal pezzo di carta, ma quei pochi esami che mancano per conseguire la laurea diventano una montagna insormontabile. Gli anni da fuori corso si accumulano insieme alle menzogne che racconta alla sua famiglia e ai suoi amici. Il dramma individuale pagina dopo pagina si fa collettivo, perché Marco non è eccezione. Scopre che tanti altri colleghi insospettabili sono stretti nella morsa della "società della performance". Condividere lo stesso dolore però non basta e c'è chi rimane sopraffatto. "La coscienza delle piante" accende un faro sul dramma silenzioso del suicidio universitario che come molte altre tragedie del nostro tempo rischia di restare confinata alla cronaca nera e a una narrazione di rassegnata ineluttabilità. Contro questa deriva, Prestia scrive un romanzo che cerca di stimolare una riflessione sul tema, ricostruendo le tappe che portano al gesto estremo e individuando le responsabilità sistemiche. Il risultato è una storia piena di pathos e al tempo stesso “militante”. Professori, famiglie, amici: è a loro che si rivolge l'autore, perché nessuno si salva da solo. L’epigrafe che apre il suo libro è una citazione de “L’idiota” di Dostoevskij. Perché questa scelta? Per un meccanismo di autodifesa quando sono arrivato in Italia ho dimenticato immediatamente il russo. Ho voluto cancellarlo, ma col senno di poi è stata veramente una grande sciocchezza, perché Dostoevskij è il mio scrittore preferito, ma l'ho letto tutto in italiano, che è come leggere un altro autore praticamente. Dostoevskij è l'unico legame che mi è rimasto con la Russia, anche se il suo nome lo pronuncio malissimo tra l'altro. Ho scelto “L’idiota” perché ha molto in comune con Marco, il protagonista del mio ultimo libro: "un uomo assolutamente buono". Il suo esordio ha coinciso con un racconto, in parte autobiografico, sulle sue origini. Una scelta o una necessità? Volevo partire dal mio vissuto e quindi da una trama sicura, già nella mia testa, perché non conosco nulla meglio del mio passato. Mi è sembrata la strada più percorribile. Poi ho iniziato a scrivere e man mano che scrivevo mi rendevo conto che era quasi un esercizio per razionalizzare il passato, è stato utile, terapeutico. "Dasvidania" è un libro quasi totalmente autobiografico, è stato romanzato solo in alcune parti per cercare di rendere più accessibile al lettore i passaggi più pesanti. Ho raccontato il mio trascorso in Russia, l'abbandono di mia madre, poi la morte di mia madre, l'essere passato per tre istituti fino all'arrivo in Italia. Come descriverebbe il suo percorso di comprensione? Per me è stato facile perché sono stato accolto in un contesto familiare perfetto qui in Italia, una famiglia stupenda e da due genitori incredibili, Nicoletta e Benedetto. Conosco persone che invece non riescono ad accettare e a superare alcuni traumi e vivono male il presente. Lei è uno scrittore e come tale dà un peso particolare alle parole. Secondo lei che racconto si fa dell'adozione? Ne parliamo anche come media, ma in generale come società, con le parole giuste? Nella mia esperienza l'adozione non è mai trattata in maniera piena e vera, viene vista quasi sempre con un atteggiamento di pietismo, che spesso riscontravo quando ero più piccolo e per questo mi sentivo anche in difficoltà. Forse c'è una specie di pregiudizio, non necessariamente in senso negativo: troppa tenerezza stona, perché, soprattutto quando si parla con qualcuno che è stato adottato già da tanti anni, l'adozione è un fatto compiuto, appartiene a un’altra vita. Il passato è alle spalle. Riservarci un’eccessiva comprensione può anche scomporre la persona adottata. Con il suo esordio lei ha in qualche modo fatto definitivamente i conti con il passato. Nel libro che sta presentando ora in giro per l’Italia, c’è un tema altrettanto complesso, la salute mentale. Mi sento responsabile del tempo nel quale vivo e voglio fare la mia parte anche con dei libri che tocchino i nervi scoperti della nostra società. Tutto nasce dal fatto che sono una persona molto ansiosa, soffro di attacchi di panico, come il protagonista. Parlo di una problematica in crescita: i dati ci raccontano che sempre più persone si rivolgono a psicologi e psichiatri, sempre più persone vivono un disagio interiore e invisibile. Non possiamo ignorare che tutto questo è collegato alla pressione sociale della performance. Nel caso del libro, affronto un pezzo di questo malessere: quello degli studenti. Ho voluto mettere al centro il mondo universitario perché ci sono sempre più suicidi universitari e c’è chi si ammala per non deludere le aspettative familiari, sociali. Chi non riesce a dominarle e a reagire soccombe. Tutto parte con un attacco di panico. Come si racconta un attacco di panico? Per me è stato molto semplice perché ho preso spunto da tutte le sensazioni che ho vissuto in prima persona. Chiaramente poi con la scrittura puoi aggiungere qualche funzione in più per cercare di rendere il tutto più realistico possibile. Lei ha studiato Giurisprudenza a Siena, la città in cui è ambientato anche il romanzo. Ha raccolto il materiale di questo libro durante quegli anni? Sono stato anche io un "fuoricorso", conosco l'angoscia di restare indietro e la paura di confrontarsi con se stessi. So cosa succede: invece di fermarti e indagare le ragioni del tuo blocco, segui un flusso senza sapere dove ti possa portare. E tra l'altro l'ansia della prestazione è maggiore in chi eccelle, perché ha paura di non riuscire a raggiungere l’obiettivo per il quale ha sacrificato tanto tempo. L'università, lo studio, ti consumano tante risorse e se non vedi ripagato quel sacrificio la tua vita si trasforma in un dramma. Qual è il messaggio che vorrebbe passasse con il suo romanzo? Che i genitori dovrebbero aprirsi al dialogo e non guardare i figli quando si iscrivono all'università soltanto come numeri di matricola, perché il numero della matricola è soltanto per un periodo limitato e riguarda esclusivamente la carriera accademica, e nel mezzo c'è la vita che incide sulle prestazioni con tutti i possibili e infiniti incidenti di percorso: la fine di una relazione, un lutto, una crisi economica. L’elenco è lungo. I genitori spesso riducono i figli al loro percorso accademico o lavorativo. Le difficoltà diventano scuse. Se un ragazzo resta indietro, vuol dire che c’è un problema e non ci si deve accontentare delle risposte brevi o di quei silenzi strani. D'altro lato, sicuramente l'idea del libro è quello di far sì che i ragazzi, le ragazze, gli studenti capiscano che la soluzione è aprirsi, parlare, trovare la forza e il coraggio di farlo. Dovrebbe essere la cosa più naturale in assoluto, ma non lo è. Abbiamo un enorme problema di ascolto, ma anche di comunicazione: le conversazioni restano in superficie. Che valore ha il titolo di studio? Non è una prerogativa esistenziale, ma è, o almeno dovrebbe essere considerato, un pass per entrare nel mondo del lavoro, per realizzarci a livello professionale ed economico, che, ricordo sempre, è esclusivamente utile per la sussistenza. Dovrebbe essere un accessorio dell'esistenza e invece noi siamo una società nella quale sta diventando tutto l'opposto. L’ansia è un problema della nostra generazione e della successiva più delle precedenti? Penso che sia il problema della nostra generazione. A differenza dei nostri genitori siamo succubi di notizie ogni minuto. Prima i telegiornali erano le notizie del mondo, arrivavano tre-quattro volte al giorno attraverso la TV, dal giornalaio. Con i social e il web siamo bombardati dalle guerre, dalle epidemie, dagli incidenti, dal cambiamento climatico, da qualsiasi tipo di disastro. Questa sovraesposizione sicuramente incide tantissimo. E poi la nostra società è diventata ultra competitiva, come non lo era mai stata, e questa competizione la somatizziamo. Si trasforma in pressione sociale, perché sappiamo che siamo in tanti, abbiamo accessibilità agli studi, a qualsiasi mezzo per poterci migliorare. Non abbiamo scuse. Non demonizzo i social ma è innegabile che anche a causa di queste piattaforme siamo sempre lì a paragonarci, a confrontarci, e alimentiamo un mondo di apparenza. Passiamo la vita a voler essere qualcun altro dimenticandoci di provare quantomeno a essere noi stessi. Abbiamo smesso in questo modo di coltivare la nostra persona. Eppure leggendo questo libro, soprattutto nelle prime pagine, non si può non pensare a un altro romanzo, pubblicato nel 2020, ma ambientato nel 1994, esattamente trent’anni fa. “Tutto chiede la salvezza” di Daniele Mencarelli. Entrambi i protagonisti hanno un crollo psicologico che dà il là alla storia. I libri di Mencarelli io li ho consumati, poi l’ho conosciuto ed è diventato un punto di riferimento. Sicuramente ci sono dei collegamenti, perché sono due libri che parlano di salute mentale. Per quanto la salute mentale possa essere vasta, alla fine il linguaggio la riduce a un’esperienza comune, anche se Mencarelli lo fa con un talento non paragonabile al mio. Sia Marco che Daniele sono bloccati, impantanati. In questo simili.