Una principessa indipendente, convinta di aver trovato il principe perfetto, si ritrova intrappolata in una relazione tossica. Fumetto d'esordio per l'illustratrice siciliana, primo fumetto originale pubblicato dalla nuova casa editrice Rebelle, Selvaggia è una storia che ribalta gli archetipi per parlare di abusi
Selvaggia è una bambina vivace, che salta dentro le pozzanghere, si arrampica sui rami e tira con l’arco. Ma è anche la principessa di un regno che a un certo punto della sua vita, ancora molto giovane, deve trovare marito. Re e regina, però, vogliono il meglio per lei e le consentono di sceglierselo. Comincia così Selvaggia, il fumetto di esordio dell’illustratrice siciliana Rosalia Radosti, pubblicato da Rebelle (132 pagine, 20 euro). Comincia come una fiaba moderna, con una protagonista femminile ribelle e autonoma, ma poi si allontana da qualsiasi canone già visto. Dalla fiaba tradizionale, che destruttura, da quella idealizzata disneiana, che schiva, persino dal filone delle rivisitazioni più recenti. Perché Selvaggia non nasconde i sottotesti patriarcali che per secoli hanno riempito le fiabe, non li cancella, piuttosto li espone al pubblico e li denuncia, come spiega a Sky TG24 la sua autrice.
Possiamo dire che Selvaggia è una controfiaba?
In realtà sì, perché pur avendo tutti gli elementi classici della fiaba, di cui io sono amante, al tempo stesso cerca di parlare di qualcosa di nuovo e attuale, quindi per forza deve andare controtendenza rispetto alla classica fiaba. Il fatto di crearle aspetti inaspettati, diversi dall’andamento classico della fiaba, è funzionale alla volontà di raccontare una storia vera. La verità spesso non ha un cliché, è inaspettata.
In qualche modo, però, col finale, si avvicina però alla vera tradizione delle fiabe. Quella di Andersen e dei Grimm. Hai sempre avuto in mente quel finale?
Sì, l’ho pensato subito, era importante che non fosse lieto, almeno non totalmente, perché bisogna ricordarsi che certe situazioni lasciano degli strascichi e quindi si rimane un po’ in bilico tra l’avere risolto un dramma e il portarselo ancora dentro. E parla di una scelta molto umana ma molto pericolosa, quella di chiudersi nella paura. Perché quando lo si fa è vero che ci si protegge dal male ma ci si allontana anche dalle cose felici.
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Come nasce l’idea di Selvaggia?
Con un’immagine di lei che tira con l’arco, per caso. L’ho trovata un personaggio interessante che potesse avere qualcosa da dire, svolgendo un po’ il capo di questa matassa e trovando un eventuale finale per questo personaggio si è creata la storia. È un personaggio molto coraggioso che poi finisce per essere ostaggio della paura.
Da anni, ormai, si discute degli archetipi delle fiabe e del loro essere così figli di un patriarcato misogino. In tanti hanno già rivisitato le fiabe in varie maniere o hanno presentato questa esigenza. Tu però lo hai fatto in modo diverso, mettendo in evidenza tutto quel sottotesto machista, rendendo esplicito l’abuso, deromanticizzandolo.
Sì, era questo l’intento, il far vedere che quello che una volta poteva essere reputato bello e romantico, qualcosa su cui sognare, in realtà poi si traduce in situazioni aggressive, se non abusive. Mi viene in mente il momento in cui i pretendenti chiedono la mano di Selvaggia, emerge questo concetto di moglie come soprammobile, mentre lei vuole un rapporto paritario.
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Quanto tempo hai lavorato per il tuo primo fumetto?
All’incirca un anno. In realtà la fase di scrittura, per quanto possa essere lunga perché uno la vuole realizzare al meglio, è sempre molto più breve. La parte che prende moltissimo è il disegno e la colorazione.
Quali sono stati i momenti più difficili da superare all’interno del processo creativo?
In realtà la storia, in quanto a scrittura, non ha avuto particolari ostacoli perché mi era tutta chiara in mente da subito. Gestire la regia di così tante pagine e riuscire a mantenere un ritmo buono, coerente, fruibile, che portasse a leggerlo senza appesantire troppo, quella è stata la difficoltà maggiore.
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Parlando dello stile dei disegni, a me è sembrato molto disneyano. Il che amplifica la distonia tra l’idea comune della fiaba e quello che invece hai realizzato tu.
In realtà è un po’ il mio stile, quello con cui lavoro anche come illustratrice. Nato dall’ispirazione di illustratori dell’epoca d’oro dell’illustrazione, di fine ‘800 primi ‘900. Poi ci sono delle modernizzazioni, sono una donna che vive oggi, non in quell’epoca, e i ritmi di produzione non permettono di studiare quanto si vorrebbe. Così è nato uno stile che è una via di mezzo, più sintetico rispetto quelli degli illustratori di una volta ma che penso richiami molto quell’ambiente lì.
Ti è mai capitato di incontrare quello che credevi essere il principe azzurro e invece poi si è rivelato tutt’altro?
Sì, assolutamente. Penso che nella vita di ogni donna sia capitato il fantomatico principe azzurro che poi non lo era. Fortunatamente nel mio caso non sono state situazioni simili a quelle di Selvaggia, però l’ho visto vivere a molte persone, anche a me vicine, e ho toccato con mano il dramma di certe situazioni.